Qualche giorno fa, la Corte di Giustizia dell’Ue si è espressa sulla questione riguardante i cosiddetti Paesi di origine “sicuri”, al centro di un’accesa disputa fra il governo e la magistratura italiana. La sentenza era molto attesa in quanto riguarda, seppur indirettamente, le sorti del centro migranti in Albania.
La Corte ha sostanzialmente dato torto al governo italiano: sebbene ciascuno Stato possa stabilire autonomamente una propria lista di Paesi sicuri, le informazioni su cui si basa questa valutazione devono essere rese accessibili. I giudici potranno valutare l’adeguatezza della designazione sulla base di tali informazioni e di altre raccolte personalmente.
Il tema della gestione del fenomeno migratorio, notoriamente, è particolarmente delicato a livello politico; non a caso, la sentenza è stata molto discussa, e rischia di mettere in difficoltà le politiche migratorie di diversi governi europei.
Cosa sono i Paesi “sicuri”?
Si tratta di una lista di Paesi considerati generalmente sicuri in quanto presentano un quadro istituzionale democratico e rispettano (almeno formalmente) i diritti fondamentali della persona. Sono importanti in quanto, per le domande di asilo presentate da migranti provenienti da questi Paesi, è prevista una procedura accelerata, basata proprio su questa presunzione di sicurezza. I richiedenti asilo, tuttavia, possono dimostrare di essere personalmente vittime di una persecuzione o di rischiare di subire trattamenti disumani o degradanti in caso di rimpatrio.
La normativa sui Paesi di origine sicuri fa riferimento alla direttiva 2013/32 dell’Unione europea, che mira a semplificare e velocizzare le procedure di rimpatrio. La direttiva consente a ciascuno Stato di adottare una propria lista di Paesi sicuri sulla base di alcuni criteri fondamentali. Tuttavia, spesso in queste liste sono presenti nominativi abbastanza dubbi. È il caso, ad esempio, della Tunisia, del Bangladesh, o dell’Egitto, presenti nella lista presentata dal governo italiano.
In seguito ad alcune controversie con la magistratura relative alla sicurezza di questi Paesi e alla possibilità di trasferire i migranti provenienti da essi nel centro di rimpatrio in Albania, nell’ottobre 2024 il governo ha inserito la lista in un decreto-legge (mentre prima era contenuta in un decreto interministeriale), sperando di darle maggior valore dinnanzi ai tribunali.

Tuttavia, anche le leggi ordinarie sono gerarchicamente subordinate al diritto UE. Proprio in relazione al decreto-legge, il Tribunale ordinario di Roma ha sollevato una questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia dell’UE, chiedendole di pronunciarsi sul tema dei Paesi sicuri.
La decisione della Corte
Il caso in questione riguarda due cittadini bangladesi soccorsi in mare e trasferiti in Albania. La loro domanda di asilo è stata respinta con procedura accelerata, in quanto il Bangladesh compare nella lista dei Paesi sicuri. Il governo italiano, tuttavia, non ha specificato su quali fonti abbia motivato tale designazione, impedendo ai richiedenti asilo di verificarne l’attendibilità.
La Corte ha decretato che ciascuno Stato membro può designare autonomamente Paesi di origine sicura mediante atti normativi, sempre in accordo con quanto stabilito dal diritto UE.
Tuttavia, gli Stati devono garantire un “accesso sufficiente e adeguato” alle fonti di informazione su cui si basa la designazione di Paese sicuro: questo sia per consentire al richiedente asilo il diritto a un ricorso effettivo, sia per consentire al giudice di vagliare la conformità della designazione con il diritto UE – ed eventualmente, di disapplicare la legge.
Nel loro esame, i giudici possono basarsi, oltre che sul materiale valutato dagli Stati per decretare la sicurezza del Paese, anche su altre informazioni raccolte autonomamente, a condizione che si accertino della loro affidabilità.
Inoltre, un Paese, per essere definito “sicuro”, deve esserlo per tutta la sua popolazione, e non solo per una parte di esso. Su quest’ultimo punto, tuttavia, la Corte ricorda che, a partire dal 2026, entrerà in vigore il nuovo Regolamento sulla procedura d’asilo, che consentirà di considerare un Paese sicuro con delle eccezioni per categorie di persone chiaramente identificabili.
Le reazioni alla sentenza
La sentenza della Corte di Lussemburgo non ha fatto che acuire le già aspre relazioni del governo italiano con la magistratura. In un comunicato ufficiale, la sentenza viene criticata in quanto “riduce ulteriormente i già ristretti margini di autonomia dei Governi e dei Parlamenti nell’indirizzo normativo e amministrativo del fenomeno migratorio”. Secondo il governo italiano, “la giurisdizione (…) rivendica spazi che non le competono, a fronte di responsabilità che sono politiche”.
La sentenza ha implicazioni non solo per l’Italia, ma incide profondamente su un consenso condiviso da molti esecutivi europei in materia migratoria. In effetti, durante il procedimento, la Germania, la Francia, e la stessa Commissione europea hanno depositato memorie scritte in difesa del principio per cui uno Stato può esercitare un proprio margine discrezionale nel definire i Paesi terzi come sicuri, senza la necessità di rendere accessibili pubblicamente tutte le fonti consultate. Un’idea che potrebbe minare la trasparenza (già scarsa) dei procedimenti di rimpatrio, sottraendo gli esecutivi dal controllo giurisdizionale.
Sebbene la gestione della questione migratoria sia un’esclusiva del potere politico, quest’ultimo deve attuarla in accordo con alcune norme fondamentali, che mirano a tutelare una già debole disciplina sui diritti umani. Il controllo giurisdizionale in questo senso è fondamentale, ed è uno dei pilastri dello Stato di diritto – e del resto, non è certamente una novità che i giudici possano esprimersi sulla conformità del diritto nazionale con quello europeo. Ad oggi, in Europa, assistiamo tuttavia al formarsi di un consenso di avviso opposto, che mira a svincolarsi sempre più dai contrappesi al potere esecutivo.
Sara Stella
Per approfondire:
https://pagellapolitica.it/articoli/sentenza-corte-giustizia-ue-paesi-sicuri-albania
