Secondo un’indagine condotta da Quaestiones su un campione di 1500 studenti italiani, circa la metà ha affermato che l’università incide in buona misura sul proprio benessere mentale, mentre il 40% ha affermato che è causa significativa di stress e disagio.
Scadenze, esami da superare e responsabilità sono solo la punta dell’iceberg della vita degli studenti, a cui si aggiungono le aspettative esterne e personali, oltre agli oneri economici.
Studiare ha un costo: negli Stati Uniti la spesa media annuale è di 38 mila dollari a studente; in Italia, un fuorisede che decide di studiare al Nord spende in media circa 19 mila euro l’anno.
Studiare, soprattutto in determinati contesti, rappresenta dunque un peso economico rilevante –tanto da spingere molte famiglie a chiedere prestiti per garantire un’istruzione ai propri figli.
Le study drugs
In questo ambiente di forte tensione diventano popolari le study drugs, le droghe dello studio, anche chiamate “droghe intelligenti” (smart drugs). Adderall, Ritalin, Ecstasy, MDMA sono solo alcune delle sostanze usate dagli studenti per alleviare lo stress e “performare meglio” nella preparazione degli esami (nonché durante gli esami stessi).
Medicine destinate a persone affette da ADHD, vengono fruite da studenti non diagnosticati per rimanere più concentrati durante lo studio, rischiando così di sviluppare dipendenze – a causa della facilità con cui si può cadere nell’abuso – oltre che effetti collaterali, come perdita di appetito, danneggiamento delle prestazioni cognitive a lungo termine, aumento del battito cardiaco, ansia e altri.
Inoltre, venditori non sicuri possono contaminare le sostanze con altri composti, rendendo l’assunzione di questi prodotti altamente sconsigliata.
Si tratta di una situazione che coinvolge studenti da tutto il mondo e che non è nata di recente: un articolo di The Guardian del 2009 ne dimostra, nel suo piccolo, la lontana origine. Navigando in rete si trovano articoli più recenti che descrivono la medesima situazione, come se non si fosse mai trovata una reale soluzione.
Secondo un articolo di AddictionCenter di quest’anno, negli Stati Uniti 1 studente su 5 abusa di droghe per studiare. Focas, giornale brasiliano, ha ritratto una situazione drammatica nelle università del Paese: studenti che usano Ritalin, medicinale prescritto tipicamente per trattare il disturbo da deficit di attenzione e iperattività, per superare concorsi pubblici, esami di ammissione e per laurearsi in tempo.
NL TIMES, giornale olandese, in un articolo del 2023 ha riportato come 1 studente su 20 faccia uso di queste sostanze senza prescrizione, l’80% di questi per studiare.
Come riporta un articolo dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, chi assume queste sostanze durante l’università sarà più propenso a ripetere questi stessi meccanismi anche nel mondo del lavoro.
È questo il futuro dell’istruzione che vogliamo?
Siamo abituati a parlare di doping nello sport, non nello studio: ogni anno infatti sbucano notizie di atleti scoperti a fare uso di sostanze dopanti e, in determinati campionati, è anche “accettato”.
Discutere di potenziamento cognitivo e doping nello studio, invece, è sicuramente un tema “nuovo” e insolito, anche se a livello cinematografico qualcosa di simile è già stato rappresentato da Limitless, con la sostanza nootropa NZT.
Il rischio di trascurare temi come questo sta proprio nell’ignorare situazioni che, seppur moralmente contestabili (è considerabile “giusto” barare?), sono da considerarsi come sintomi di sentimenti e contesti esistenziali più nascosti, che, se sottovalutati, non possono che peggiorare e protrarsi nel tempo.
Università e salute mentale sono due temi che sentiamo associare molto spesso, proprio a causa di sfortunati eventi di cronaca nera.
L’università
L’università, per come è nata nel Medioevo, si strutturava come un centro dove studiare e portare avanti le proprie passioni, un centro dove manifestare amore per la cultura e per la discussione (le “dispute”), nonché un luogo in cui gli studenti potessero ritrovarsi e fare comunità.
Col tempo, questo sentimento sembra essere cambiato, dando origine a un ambiente competitivo, in un sistema che forse non coglie più l’università come un diritto ma come un privilegio, e la cultura non come un valore intrinseco, ma solo nella misura in cui produce.
È questa l’università che vogliamo? È questo il modo in cui vogliamo vivere la cultura?
Octavio Moretto
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