Gaza è il nuovo giocattolo di Trump

Dopo due anni di guerra e decine di migliaia di morti, il mondo tira un sospiro di sollievo: a Tel Aviv, Donald Trump viene accolto come l’uomo della pace. Applaudito alla Knesset, celebrato dai media occidentali, il presidente americano festeggia il suo successo diplomatico: la guerra tra Israele e Hamas sembra finita.

Ma quali sono le caratteristiche di questa pace, e come è arrivato il tycoon a questo risultato?

Il 29 settembre, la Casa Bianca ha presentato un piano di pace in 20 punti per porre fine al conflitto Israele-Hamas, il quale è stato accettato dalle due parti (almeno nelle sue predisposizioni fondamentali), e che ha portato al cessate il fuoco, al ritiro parziale di Israele, e allo scambio di ostaggi e detenuti palestinesi.

Un successo di diplomazia internazionale, di immani sforzi di mediazione, si è detto. In realtà, gran parte di questa operazione è stata condotta non nelle stanze della diplomazia tradizionale, ma principalmente sul social media X, dove il presidente Trump rilascia opinioni, slogan e dichiarazioni ufficiali. Più che una trattativa, il processo è apparso come una campagna di comunicazione, calibrata per l’opinione pubblica americana e mondiale, desiderosa di vedere in lui il “pacificatore” capace di risolvere l’ennesimo conflitto mediorientale.

Crediti: Il Fatto Quotidiano
https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/10/14/trump-narcisista-vuole-essere-come-cesare-media-arabi/8160105/

I media arabi descrivono Trump come un narcisista, un leader che aspira a essere “il nuovo Cesare”, a caccia del Nobel per la pace.  Persino il vertice di Sharm el-Sheik, dove i maggiori leader europei si sono incontrati per firmare l’accordo di pace, è apparso più come un evento celebrativo che come un vero momento politico: nonostante il piano in 20 punti della Casa Bianca sia pieno di generalità e specifiche vaghe, l’élite politica non si è ingaggiata in discussioni sui prossimi step per Gaza. Piuttosto il summit si è distinto per alcuni simpatici siparietti, come quelli dei vari commenti (sessisti) rivolti alla presidente Meloni, che hanno finito per oscurare il contenuto dell’accordo.
E Trump, come ogni festeggiato che si rispetti, è arrivato persino in ritardo alla sua festa. 

Un’alterazione del classico percorso di negoziazione, con la presentazione di un piano di pace negoziabile ma fino a un certo punto, più simile alla chiusura di un affare immobiliare che a un cauto processo diplomatico. Con un linguaggio e un modo di fare tipico del marketing, il tycoon ha fatto di tutto per portare a casa il risultato e rivedere in seguito i dettagli. Un out-out calato dall’alto, la migliore offerta possibile: prendere o lasciare.

Questo tentativo di Trump di dimostrarsi l’ago della bilancia geopolitica mondiale sembra un tentativo disperato di riconfermare quel ruolo dominante che gli Stati Uniti d’America stavano perdendo in un mondo multipolare e con l’emergere di nuove grandi potenze.
Con questo piano, Trump non mira soltanto a mettere fine alla guerra, ma a ribadire che nessuna pace può avvenire senza Washington. L’obiettivo è riaffermare la leadership statunitense in un momento in cui la sua influenza è in declino, soprattutto dopo il disimpegno in Ucraina e le tensioni interne alla NATO.

Eppure, fino a pochi giorni prima di essere investiti della vocazione per portare – o imporre – la pace nel mondo, gli Stati Uniti continuavano a fornire armi e sostegno militare a Israele. Trump aveva accolto Netanyahu quattro volte alla Casa Bianca, era intervenuto in suo sostegno contro il processo per corruzione, si era opposto al riconoscimento dello Stato palestinese e aveva autorizzato raid sui siti nucleari iraniani. Non era mai intervenuto nella guerra ad Hamas, e addirittura poco prima di presentare il piano di pace, il 17 settembre 2025, aveva posto il veto alla tregua nel Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Cosa è cambiato, dunque? Cosa è successo alla fantasia di “Gaza Riviera”, di resort e hotel costruiti sulle macerie?

Forse, semplicemente, la guerra non era più conveniente.

Crediti: The New York Times
https://www.nytimes.com/2024/11/06/world/middleeast/trump-israel-support.html

La stabilità conviene più del conflitto quando gli interessi economici sono in gioco. Non è infatti un caso che l’inviato per le negoziazioni, al fianco di Steve Witcoff, fosse proprio il genero di Trump: Jared Kushner, marito di Ivanka Trump, immobiliarista, già consigliere strategico del presidente nella sua prima amministrazione. Dopo aver lasciato la Casa Bianca, Kushner ha fondato il fondo Affinity Partners, che investe in Israele, nelle aziende dei coloni e in settori collegati all’esercito, ma anche in progetti immobiliari nei Balcani – è stato lui il primo a evocare l’immagine di una Gaza trasformata in Riviera. Con capitali provenienti principalmente dai Paesi del Golfo e ritorni alti per se stesso, ma non altrettanto per i suoi finanziatori, Kushner è stato accusato di “vendere l’influenza politica al miglior offerente straniero”.

Il presidente Trump avrebbe trovato il modo di vincere la guerra senza sporcarsi, ancora, le mani, agendo dalla parte del buono. Dopo due anni di conflitto estenuante, quando ormai entrambe le parti sono stremate e la pressione internazionale è forte più che mai, continuare la guerra non era più fattibile: ciò avrebbe comportato l’inimicizia di numerose potenze mondiali. L’Arabia Saudita per prima, dopo l’attacco di Israele in Qatar del 9 settembre, in un aperto e sfidante gesto di sfiducia verso Trump è passata sotto l’ombrello nucleare del Pakistan.

Così, dopo aver aspettato che Gaza fosse rasa al suolo, il presidente Trump ha posto fine al conflitto, alle sue condizioni.

Il piano contiene condizioni così stringenti e facili da disattendere, che un passo falso di Hamas basterebbe a giustificare una ripresa del conflitto. Forse Trump non aspetta altro che questo, mantenendo però il ruolo di quello che ci aveva provato, a fare la pace.
Forse il tycoon ricercava addirittura il rifiuto della pace da parte di Hamas in primo luogo: secondo un rapporto di Axios, l’accordo originariamente presentato a Qatar, Turchia, Egitto e altre parti, è stato poi modificato in modo significativo da Netanyahu, Dermer e Kushner per renderne quasi certa la bocciatura da parte di Hamas.

Il documento di pace è anche molto vago nelle sue condizioni; solo la prima fase, quella del cessate il fuoco e dello scambio degli ostaggi, è chiara e immediata nella sua applicazione.  Le fasi successive, la governance futura e le responsabilità, le tempistiche di ritiro e riforma, sono formulate in modo ambiguo, lasciando ampi margini di manovra politica e possibili differenze tra proposta e attuazione.

Forse, utilizzando le parole di Alessandro Orsini, era davvero un gioco da ragazzi fermare questa guerra, in quanto dipendeva solo dalla volontà di Trump.

Ma è proprio qui che si misura il limite di questa pace: una tregua che nasce da un atto di volontà personale, non da un processo politico o da una riconciliazione reale. Una pace che si può firmare, revocare, riscrivere – proprio come un contratto o un tweet.

Serena Savarese

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