Horror è una parola intrigante dal punto di vista fonosimbolico e fonestetico. Una h muta che ricorda un’essenza impalpabile, un vuoto grafico, una sospensione prima del macabro contatto. Tre r che implicano un tremore, un’agitazione. Sono la lingua e la cavità orale che rabbrividiscono, la pelle che si increspa per la paura. E, infine, due o simmetriche, che rappresentano il volto terrorizzato: è l’inquietudine apertamente dichiarata. Sul versante etimologico, la parola si fa carne: dal latino horreo, ovvero rizzare il pelo, raggelarsi, trasalire e fremere dall’angoscia. È una figura estetica molto potente, percettivamente epidermica.
Quando parliamo di horror, la prima cosa a cui pensiamo è un genere filmico. È risaputo che l’horror sia un enorme calderone, un filone che continua a esistere nella contemporaneità. Tuttavia, è bene segnalare una rottura netta avvenuta nella storia di questo genere. L’horror, infatti, è inizialmente la messa in scena della paura che nasce dall’Altro, dal mostro o dal soprannaturale che invade la realtà quotidiana; questo è prevalentemente ambientato in castelli, cripte, camere domestiche, antri oscuri: si pensi alle opere di registi come F.W. Murnau, Tod Browning, Jacques Tourneur, James Whale.
Negli anni Sessanta, poi, alimentano e innovano il panorama cinematografico i capolavori di Hitchcock (Psycho, Gli uccelli) e lavori influenti come L’occhio che uccide (1960, Michael Powell) e Che fine ha fatto Baby Jane? (Robert Aldrich).
Ma il campanello d’allarme giunge alle soglie degli anni Settanta: nel 1968 esce La notte dei morti viventi (fig.1) di George A. Romero. La pellicola ruota attorno a un insediamento: alcune persone si ritrovano in una casa e devono fronteggiare uno stuolo di zombie. All’apparenza una storia basilare, ma che in realtà “costituì un colpo d’ariete decisivo contro le stantie e polverose concezioni dell’horror”. Il motivo?

Gli zombi in La notte dei morti viventi (1968)
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Romero è stato capace di voltare pagina, di rielaborare lo sguardo dello spettatore e il genere stesso. Quel determinato momento storico americano era permeato da una forte disillusione: guerra del Vietnam, corsa agli armamenti nucleari, gli assassinii Kennedy e King. Il film aveva intercettato il senso di caos e di crollo sociale, tanto che, attraverso la figura di Barbra (Judith O’Dea), La notte dei morti viventi potrebbe essere letto come un grande saggio sul tempo, inteso come qualcosa che sfugge, si spezza e si confonde: è la temporalità del trauma presente.
E negli anni Ottanta è di nuovo con Romero che l’horror muore per rinascere: nel 1978 esce Zombi (fig.2 e fig.3). Il film è ambientato questa volta in un centro commerciale: i pochi sopravvissuti umani devono difendersi dai morti viventi che tentano di entrare. Pier Maria Bocchi sottolinea come questa pellicola sia da considerare “il funerale dell’horror degli anni ‘70”, ampliando il discorso de La notte dei morti viventi e anticipando le nuove tendenze dell’horror successivo e non solo, poiché fu in grado di profetizzare l’ideologia della Reagan Era, contrassegnata dal culto del denaro, dal consumismo, dall’individualismo e dal culto dell’io.

I morti viventi in Zombi (1978) entrano nell’ascensore del centro commerciale
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I protagonisti sopravvissuti di Zombi (1978)
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In una delle ultime interviste, Romero ha riassunto così l’oggetto del suo cinema: “come reagisce l’umanità a una tragedia?”. È proprio da queste premesse che l’horror diventa politico e produce politica. Il genere inizia a percepire il presente, a comunicare con esso e a inscenare le calamità, i paradossi, le illusioni. In altre parole, l’orrore è inscindibile dalla società ed è causato dall’uomo.
Dunque, l’horror è rivelatore del presente. Riguardo a ciò, tra i tanti film di Romero, andrebbe riscoperto Bruiser (2000, fig.4). Henry Creedlow (Jason Flemying), uomo remissivo e conformista, lavora per una rivista superficiale e materialista. Una mattina si sveglia senza volto. Al suo posto vi è una maschera bianca, che pochi giorni prima era stata creata durante una festa da Rosemary, la moglie del capo di Henry. Il protagonista inizia così a vendicarsi di chi lo ha umiliato: la moglie infedele, il capo tirannico, gli amici falsi e approfittatori.

La locandina di Bruiser (2000)
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Bruiser fu un insuccesso commerciale. Malgrado ciò, è un’opera che suscita tutt’oggi un grande fascino e riesce a materializzare una serie di traumi legati alla contemporaneità. Bruiser, infatti, è una vera e propria parabola sulla privazione dei diritti, sulla disumanizzazione dell’individuo nella società tardo-capitalista, dipinta con uno stile freddo, asettico, quasi clinico, richiamandosi all’estetica impersonale di Hollywood e della televisione.
Romero usa Bruiser per criticare il materialismo, il narcisismo e la cultura dell’immagine tipiche della società neoliberista. È un ciclo infinito di violenza e alienazione, ben caratterizzato dall’alternanza di fantasia e realtà. Lo si vede sin dalle prime immagini del film: Henry sta ascoltando un programma radio in cui, durante una chiamata con lo speaker, un uomo si suicida; improvvisamente Henry stesso, guardandosi allo specchio, prende una pistola e si uccide (fig.5). Attraverso una dissolvenza, intuiamo che non è successo realmente.

Henry immagina di suicidarsi
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È il film che si compone di queste suggestioni, fino ad arrivare alla maschera anonima (fig.6, ispirata a quella de Gli occhi senza volto, 1960, Georges Franju) che copre il volto di Henry e che non si può rimuovere. La maschera è la pelle; ma è una pelle in cui lo specchio dell’io scompare, lasciando il protagonista in uno stato di pura frattura tra il Sé e la propria rappresentazione. Quando Henry perde il volto, Romero concretizza il collasso del rapporto tra Simbolico e Immaginario: l’identità non è più sostenuta dal linguaggio, ma si riduce a mera superficie visibile.

Henry, guardandosi allo specchio, scopre di non avere più un volto
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Se l’identità del soggetto si costruisce attraverso lo sguardo dell’Altro, in Bruiser l’Altro è ormai corrotto: i media, il capo Milo, la moglie Janine, l’amico James. Sono sguardi che disumanizzano Henry, causando la perdita del suo volto, quindi una castrazione simbolica. Da qui nasce la sua violenza, che non porta ad alcuna liberazione (come si vede nel finale), ma sembra essere piuttosto un tentativo disperato di riappropriarsi dello sguardo dell’Altro attraverso un atto: affermare la propria esistenza tramite la vendetta.
È attraverso film come questi che l’horror non ha più solo una valenza sensoriale, ma anche etica, politica, sociale e giuridica. Il cinema ci consente così di esaminare le dinamiche di potere, la disumanizzazione dell’individuo e le ingiustizie sistemiche e contraddittorie dell’oggi.
Marco Novello
FONTI:
Kristopher Woofter, “The Death of Death”: A Memorial Retrospective on George A. Romero (1940-2017) in MONSTRUM, no.1, Aprile 2018
Pier Maria Bocchi, So cosa hai fatto. Scenari, pratiche e sentimenti dell’horror moderno, Lindau, 2024
Tony Williams, The cinema of George A. Romero. Knight of the living dead, Wallflower Press, 2015
Tony Williams, George A. Romero Interviews, 2011
