Si è sentito molto parlare del DDL Sicurezza, entrato in vigore a luglio 2025. Indubbiamente solleva dubbi riguardo alla sua costituzionalità, e non è nemmeno la prima previsione normativa del Governo a ricevere critiche. Ma cosa c’entra questo con la mafia?
Venerdì 10 ottobre si è tenuta al Campus Luigi Einaudi la conferenza sulla mafia Le radici del male, i frutti della speranza, organizzata da ELSA (European Law Students’ Association) Torino. Ospiti relatori erano il dott. Antonino Di Matteo, il giornalista Stefano Baudino, il dott. Luigi De Magistris e l’ingegnere Salvatore Borsellino. Moderatore della conferenza era Fabrizio Schiavo.
In questo articolo, secondo di una serie dedicata al tema della mafia, si prosegue con la restituzione della testimonianza di Antonino Di Matteo, magistrato italiano e sostituto procuratore antimafia e antiterrorismo.
La passione per la carriera in magistratura
Di Matteo spiega che la propria passione per la magistratura è cresciuta parallelamente a ciò che viveva nella sua città. Era un giovane studente quando Palermo era conosciuta nel mondo per essere la capitale della mafia. Durante la cosiddetta “Seconda Guerra di mafia”, nella sola Palermo e provincia ci furono oltre 300 omicidi in un anno; persero la vita il Presidente della regione Mattarella, il generale Della Chiesa, il Procuratore Costa, gli agenti di polizia Cassarà e Montana. Di Matteo è cresciuto in quella Palermo che il Corriere della Sera in prima pagina, in occasione della strage di Chinnici, chiamava “Beirut”. In quel momento storico il magistrato, come tanti altri giovani, vedeva nell’azione intrapresa da Chinnici, e poi da Falcone e Borsellino, un riscatto per il suo territorio. Non ne poteva più dell’identificazione della terra e della cultura palermitana con la subcultura e la politica mafiosa.
Ad appassionarlo non era l’idea di diventare magistrato per scrivere dotte sentenze o godere di prestigio nella società, ma il suo desiderio era – ed è – quello di «contribuire alla liberazione da questo cancro», così come lo definisce il magistrato, cioè alla lotta contro la mafia. La mafia ha inquinato non soltanto la Sicilia, ma l’intera politica nazionale: Di Matteo allude alla sentenza passata in giudicato nei confronti di Andreotti, sette volte Presidente del Consiglio e ventuno volte ministro, il quale soleva incontrare i capi mafia siciliani per discutere dei “danni” che stava facendo a Cosa Nostra l’operato del Presidente della regione Mattarella. Allude anche al senatore Dell’Utri, che è stato condannato per concorso ad associazione mafiosa e che per circa un ventennio aveva svolto la funzione dapprima di promotore, poi di garante, di un patto di reciproca protezione intervenuto tra le principali famiglie palermitane e l’allora imprenditore Silvio Berlusconi.
Oggi Di Matteo è sostituto procuratore antimafia e antiterrorismo, una delle cariche istituzionali più importanti nel contrasto alla criminalità organizzata.
Le riforme sulla giustizia dell’attuale Governo
L’esperienza maturata nel tempo permette al magistrato di esprimersi e confrontare le riforme avvenute negli ultimi anni e come la magistratura si sia evoluta nel tempo.
Nell’analisi delle riforme sulla giustizia, spiega Di Matteo, occorre avere una visione di insieme e non considerarle singolarmente. Stiamo parlando di: riforma costituzionale della separazione delle carriere, abrogazione dell’abuso d’ufficio, riforma in materia di reato di traffico di influenze (che viene indebolito), riforma delle intercettazioni, riforma che prevede la non pubblicabilità di atti di indagine non più coperti dal segreto, riforma che stabilisce che l’unico magistrato che può avere rapporti con la stampa – e solo in alcune fasi – è il Procuratore Capo della Repubblica, attraverso una conferenza stampa. Si tratta di riforme che non risolvono il problema principale della giustizia penale, ovvero la lentezza dei processi. Nell’insieme, contribuiscono a creare soltanto uno scudo di protezione per i potenti.
In questi ultimi anni si sta infatti assistendo a leggi che, anticipate in parte dalla Riforma Cartabia, creano da un lato una giustizia efficace, rigorosa e talvolta addirittura spietata nei confronti delle manifestazioni criminali tipiche delle classi meno abbienti o relegate ai margini della società, e di riforme che, d’altra parte, proteggono la criminalità dei colletti bianchi.
La riforma costituzionale sulla separazione delle carriere si rivela, in un certo senso, inutile: negli ultimi decenni, soltanto un percentuale irrisoria di pubblici ministeri (PM) è transitata nei ranghi degli uffici giudicanti e viceversa. Da un altro punto di vista, essa è dannosa e pericolosa perché il PM, non più assimilato al giudice anche per cultura della giurisdizione, inevitabilmente diventerà una sorta di super poliziotto, di accusatore a tutti i costi, di un soggetto che verrà prima o poi attratto formalmente o sostanzialmente nell’orbita dell’esecutivo (Governo) – come del resto vediamo accadere negli altri Paesi in cui le carriere, requirente e giudicante, sono separate. Tale è il pericolo immanente e inevitabile di questa riforma, un pericolo non per i magistrati ma per i cittadini. Un cittadino sente di godere di maggiori garanzie se il PM è dipendente o indipendente dal Governo? Si pensi a un cittadino che viene fermato in occasioni di protesta politica. La riforma lede l’equilibrio tra i poteri e l’indipendenza della magistratura dal potere politico.
Nicole Zunino
