CPR: i centri di detenzione dei migranti in Italia

“Tentammo di ottenere maggiori informazioni su quella che era la situazione prima che gli intermediari sparissero di nuovo. L’unica cosa che dissero fu “aspettate e fate silenzio”. Non li avevamo ancora pagati e al momento ci sembravano affidabili. I nuovi arrivati venivano dall’Etiopia, uno doveva pilotare la barca, gli altri erano i suoi ‘assistenti’. Il pilota si era offerto di portarci a destinazione, in cambio né lui né i suoi assistenti avrebbero pagato, mentre noi spendevamo 1.200 dollari a testa. Dato che poteva essere il nostro ultimo viaggio non ci importava il prezzo, avendo i soldi. Se arrivi sano e salvo va bene, se no è come se tu avessi già pagato le spese per il funerale e la tomba. Avevamo la disperata necessità di andar via da quel paese, il resto non contava”1. Questo è il racconto fortunato di Dagmawi Yimer, regista etiope che nel 2006 raggiunge Lampedusa e da allora vive in Italia con lo status di rifugiato. Molti non ce la fanno, muoiono durante il viaggio. Arrivato in Italia però, chi è irregolare, ovvero chi non ha con sé i documenti o il visto, viene condotto nei centri di permanenza e rimpatrio, i CPR.

Sono 135.649 i migranti sbarcati nel 2023 da gennaio fino al 5 ottobre. Il Governo dichiara lo stato di emergenza per la gestione dei flussi migratori. Il record di sbarchi però si è battuto nel 2016, con 181.436 arrivi. Una delle principali misure attuate è il potenziamento e l’ampliamento dei CPR. Ma che cosa sono?

 Introdotti con un decreto-legge nel 1995, diventano realtà nel 1998 con la Legge Turco-Napolitano che prevedeva una detenzione amministrativa per un massimo di 30 giorni. Il nome dei centri cambierà negli anni, non cambiando di fatto il loro modo di operare. Il tempo di detenzione oggi è stabilito a 90 giorni, con proroga fino a 120.

Per detenzione amministrativa si intende il temporaneo privare un individuo della libertà personale per ragioni di controllo in tema di immigrazione. Le persone senza documenti devono fornire i propri dati anagrafici sulla base di un’autodichiarazione che comprende il loro paese di origine. Da quel momento in poi si passa alle pratiche burocratiche e la Procura si rivolge ai paesi indicati per richiedere il riconoscimento dei loro cittadini. I migranti irregolari in questo lasso di tempo vengono trattenuti in attesa di essere espulsi in luoghi molto simili alle carceri per motivi burocratici, non perché si sono commessi reati. La reclusione non è preceduta da un processo e non gode delle tutele dell’ordinamento penitenziario.

Attualmente i CPR sono dieci in tutta Italia: Roma, Milano, Torino (momentaneamente chiuso), Gorizia, Macomer (Nuoro), Bari, Brindisi, Potenza, Trapani e Caltanissetta. L’obiettivo del governo è quello di costruire nuovi centri in ogni regione, in totale saranno 21.  

I centri sono affidati a varie enti, tra cui cooperative, società e multinazionali private che si aggiudicano la gestione attraverso gare di appalto indette dallo Stato. Questo significa che il governo affida a imprese private la responsabilità di gestire queste strutture secondo l’offerta economica più vantaggiosa. In pratica, il bando lo vince chi è in grado di offrire i servizi richiesti al prezzo più basso possibile. Le società inoltre vengono pagate in base al numero di persone detenute all’interno di queste strutture e per ognuna di queste viene calcolata una cifra giornaliera necessaria per la loro sussistenza. Come sottolinea il Senatore De Falco nel Rapporto Delle Pene senza Delitti, redatto dopo una visita al CPR di Milano nel 2021: “tale meccanismo costituisce, così come concepito, allo stesso tempo una spinta vera e propria ad abbassare al minimo la qualità dei servizi erogati, e quantomeno, diciamo così, ad auspicare la detenzione di quante più persone possibili per il più lungo tempo possibile: presupposti non certo edificanti per la gestione di un’attività così particolare, che ha come «merci» trattate il tempo, la libertà ed il corpo di esseri umani”2.

La responsabilità della cura della salute, compresa la garanzia di standard igienico-sanitari adeguati, spetta al governo e al Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Questo significa che il servizio fornito dalle società private che gestiscono i CPR dovrebbe essere complementare rispetto a quello nazionale, come sottolineato dalla Coalizione italiana per le Libertà e i Diritti civili (Cild).

Inoltre, l’articolo 3 del Regolamento CPR stabilisce che la Prefettura locale del CPR deve stipulare un accordo con l’Azienda Sanitaria Locale (ASL). Questo accordo è importante perché dovrebbe garantire una verifica dell’idoneità sanitaria al trattenimento delle persone detenute da parte di medici esterni all’ente gestore, come previsto dal Regolamento CIE emanato dal Ministero dell’Interno. Tuttavia, in pratica, questa verifica viene spesso effettuata da medici interni al CPR, il che solleva preoccupazioni sulla loro imparzialità e oggettività. C’è il rischio che in luoghi come i CPR, dove le condizioni possono portare a un deterioramento della salute mentale delle persone detenute, non venga effettuata alcuna verifica di compatibilità psichica prima dell’ingresso. Infatti, casi di autolesionismo e suicidio non sono estranei a questo contesto. Un esempio è il caso di Moussa Balde, ragazzo ventitreenne originario della Guinea, che nel 2021 a seguito della reclusione nel CPR di Torino si è suicidato. Due settimane prima del suo ingresso nel centro detentivo, Moussa era stato vittima di un violento pestaggio a Ventimiglia, immortalato in un video divenuto virale. Il 9 maggio, tre individui lo avevano brutalmente picchiato in pieno giorno, sotto gli occhi degli spettatori, con bastoni, calci e pugni. Nonostante le gravi ferite riportate la prognosi medica era stata di 10 giorni a cui si è aggiunta la reclusione.

Casi di violenza come questo hanno portato la popolazione civile a interessarsi a queste strutture, formando associazioni e organizzando proteste per far luce sulla loro realtà. I CPR sono luoghi in cui i detenuti sono privati della socialità e del contatto con il mondo esterno. Le condizioni igieniche sono spesso al di sotto delle norme accettabili, e per sedare eventuali proteste vengono somministrati psicofarmaci.

In questi centri, i detenuti spesso non sono adeguatamente informati dei loro diritti o della possibilità di difendersi legalmente per richiedere di essere rilasciati. I telefoni cellulari sono confiscati, a volte anche prima dell’effettiva detenzione, impedendo alle persone di recuperare documenti necessari per il loro riconoscimento. La privazione dei cellulari significa anche la perdita dell’accesso ad Internet, il principale strumento di comunicazione e informazione. In questo contesto, è estremamente difficile per i detenuti mantenere contatti con i loro parenti all’estero. Prima che venissero confiscati i cellulari, alcune immagini avevano documentato la realtà all’interno dei CPR.
Vedere è come accendere una luce sulla verità, mentre ignorare significa spegnerla.

Alexandra Onofreiasa.

  1. Per il racconto completo: Names and Bodies Lecture, http://bit.ly/3ZNSLP2 ↩︎
  2. Report “Buchi Neri”, Coalizione italiana per le Libertà e i Diritti civili (Cild): https://cild.eu/wp-content/uploads/2021/10/ReportCPR_Web.pdf ↩︎

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