L’ultimo film di Martin Scorsese, presentato a maggio al Festival di Cannes e uscito il 19 ottobre in Italia, si rivela molto diverso da quello che ci si potrebbe aspettare. La sua visione ci obbliga a sottostare a una lunghezza sicuramente spropositata a causa delle poche svolte sostanziali del racconto, ed è il principale motivo per cui si fatica ad arrivare alla sua conclusione. I temi che vuole portare alla luce rimangono però assolutamente validi e necessari per capire le dinamiche brutali che hanno coinvolto gli Stati Uniti negli anni Venti del Novecento. La verità è rimasta sepolta sotto cumuli di ipocrisia per troppo tempo ed è da lodare la scelta di portare al cinema questo frammento del passato quasi sconosciuto.
Scorsese si impegna a narrare la storia di un popolo, quello dei nativi Osage, e della sua più grande sfortuna, ovvero di aver scoperto un’immensa ricchezza nella terra in cui erano stati confinati dai coloni bianchi: il petrolio. Un popolo reietto diventa così da un momento all’altro il più ricco dello Stato. I nativi abbandonano quasi totalmente le loro tradizioni e si convertono all’agiatezza e ai vizi americani: girano in auto di lusso e vestono abiti di alta classe, incantati da un benessere che non hanno mai potuto sperimentare in precedenza. Tuttavia questo ribaltamento di status viene mal digerito dalla comunità bianca, imbevuta di razzismo e avidità. Molto presto cercheranno in ogni modo (legale o meno) di accaparrarsi una fetta del patrimonio derivato dall’oro nero, senza fermarsi davanti a niente.
La scelta politica del regista è chiara: come ha già fatto in passato con altri suoi film (Gangs of New York e The Wolf of Wall Street), svela i meccanismi con cui gli Stati Uniti si sono sviluppati, con quali mezzi il Paese è riuscito a diventare la potenza che è ora. La spregiudicatezza non ha avuto limiti e il capitalismo è stato il principale motore di un accanimento rabbioso verso gli Osage. Ernest, uno dei tre protagonisti, interpretato da Leonardo Di Caprio, lo dice subito: “Mi piacciono i soldi”; a quanto pare non solo a lui, ma soprattutto al vero direttore d’orchestra di tutto ciò che succede nel film: lo zio, William Hale, o come si fa chiamare, il Re (Robert De Niro). Il suo doppiogiochismo lo rende l’uomo più potente della zona. Egli si mostra vicino alla comunità Osage, spiritualmente ed economicamente, mentre commissiona diversi omicidi dei suoi stessi membri per ottenere le royalties del petrolio.

La terza protagonista, la nativa Mollie, è la vittima principale dei traffici del Re. Viene fatta sposare a Ernest, sotto suggerimento dello zio, perché in quanto Osage avrebbe ereditato l’imponente patrimonio della sua famiglia.
Scorsese racchiude così un trio che rappresenta sia il profilo dei carnefici (chi spietato e senza scrupoli, chi troppo ingenuo) sia delle vittime. Inoltre, per evitare di inquadrare la storia sull’uomo bianco come figura salvifica (gli agenti dell’FBI che arriveranno a risolvere i casi di omicidio), il ruolo di Mollie guadagna molto più spazio di quanto ne abbia nel libro su cui si basa il film. Questa è una scelta che si rivela molto efficace (anche grazie all’ottima prova di Lily Gladstone) e che contribuisce a portare avanti la narrazione grazie all’indagine psicologica del rapporto tra i tre protagonisti, fulcro di tutta la pellicola.
A quasi 81 anni, Martin Scorsese ha ancora voglia di sperimentare generi e stili narrativi da lui inesplorati. Abbandonando (ma non totalmente) le figure dei gangster, si addentra nelle pieghe più oscure e meno raccontate della storia americana, nel tentativo di mostrarne le ingiustizie. Quest’ultima opera si avvicina maggiormente ai suoi film più spirituali (Silence, Kundun, L’ultima tentazione di Cristo) per i temi che tratta e soprattutto il contesto in cui è ambientata. Come The Irishman, però, ha il difetto di avere una durata eccessiva, che può facilmente distogliere l’attenzione dai contenuti di rilevanza, da una messa in scena impeccabile e dalle grandi prove attoriali. Si tratta di un film in cui è necessario perdersi, abbandonarsi al suo ritmo altalenante e a volte ripetitivo, per scoprire e comprendere la forza di un film anti-epico. Per queste e altre ragioni, è da vedere al cinema.
Fabrizio Mogni
