Durante il periodo natalizio è consuetudine la riproposizione dei classici Disney sui canali nazionali e, forse, è proprio il periodo più azzeccato per rilassarsi e far partire quelle animazioni che hanno segnato le nostre infanzie. Quest’anno, oltretutto, sono stati celebrati i 100 anni della casa di animazione e il 21 dicembre uscirà Wish, il più recente dei film della Disney. A forza di guardare e riguardare questi classici intramontabili e di canticchiare le canzoni, sono sempre stata affascinata dal modo in cui viene ideata e raccontata una certa fiaba o favola. O meglio, sono sempre stata affascinata dalla ricerca che c’è dietro un film di questo tipo, dal grande pentolone da cui vengono presi i personaggi e dalla storia che si può portare avanti.
Le favole e fiabe non sono certo un’invenzione di Walt Disney, infatti, il racconto ha sempre fatto parte delle società, che utilizzavano il mito per spiegare qualcosa. Se guardiamo all’origine del termine, la parola mito deriva da mythos, la parola greca che indicava il racconto e la pratica orale di raccontare. In fondo, di questo si tratta: raccontare, cioè, narrare e intrattenere.
Nella mitologia classica i miti erano il mezzo attraverso cui i greci spiegavano certi fenomeni e narravano le gesta di eroi e divinità: per esempio, il mito di Persefone aveva il preciso compito di spiegare l’alternanza delle stagioni; la dea, rapita da Ade, fu costretta a rimanere negli Inferi e la madre Demetra (dea dell’agricoltura) fu addolorata dalla notizia di non poter più rivedere sua figlia e iniziò a rendere la terra un luogo ostile, con abbondanti nevicate e un cielo costantemente cupo. Allora, con l’intervento di Zeus, si arrivò a un accordo per cui Persefone poteva andar via dagli Inferni per una parte dell’anno e ritornarci per quella successiva, prendendo il suo posto accanto a Ade come regina dell’Oltretomba. Durante il periodo passato sulla terra, Demetra, contenta di riavere accanto la figlia, faceva rifiorire tutto ciò che prima era stato distrutto dal freddo, così, per gli occhi dei Greci, l’autunno e l’inverno rappresentavano la tristezza di Demetra e la mancanza di Persefone, la primavera e l’estate il ricongiungimento di madre e figlia.
Le favole e le fiabe avevano anch’esse il compito di spiegare qualcosa. Se rimaniamo in ambito classico, servivano per veicolare una morale: la volpe e la cicala, il falco e la volpe, la rana e il bue e così via, avevano il preciso intento di rappresentare un vizio e una virtù, sfruttati o ignorati dai protagonisti, la cui sopravvivenza o morte dipendeva dal modo in cui affrontavano un ostacolo.
Ora, nel corso dei secoli i racconti sono stati tramandati oralmente e poi messi per iscritto; ciò ha portato a una diversificazione delle vicende narrate, che hanno assunto elementi caratteristici dei luoghi in cui prendevano forma e vita. Se volessimo individuare il periodo d’oro delle fiabe e il sostrato da cui la Disney ha attinto, potremmo dire con certezza l’Ottocento e potremmo addirittura individuare il luogo geografico. Molti avranno già capito a chi mi sto riferendo: i fratelli Grimm e Andersen. A Jacob e Wilhem Grimm si deve una grande raccolta di fiabe trascritte dopo una minuziosa ricerca, che venne fatta attingendo direttamente dal folklore locale e, in particolare, dalle nonne che tramandavano le storie che avevano sentito quando erano piccole. Tuttavia è importante precisare quanto segue: i fratelli Grimm erano due studiosi della lingua e della cultura tedesca; Jacob era il linguista a cui è attribuita la legge della rotazione consonantica tedesca, nota proprio come “legge di Grimm”. I due avevano deciso di portare avanti quest’immenso lavoro perché altrimenti sarebbe stata dimenticata e perduta una parte essenziale della cultura e della tradizione tedesca. Certo, le loro fiabe sono note per essere crude e spietate, perché l’obiettivo della fiaba non è quello di conciliare il sonno, di rassicurare i bambini o di vedere quanto c’è di buono nel mondo. Le fiabe sono crude e spietate perché veicolano un messaggio spesso morale, che possiamo condividere o meno, ed è sempre stato questo il loro ruolo, anche quando si trattava di mitologia. Le sorellastre di Cenerentola che si tagliano una il calcagno e l’altra l’alluce pur di calzare le scarpette di cristallo, servivano per dimostrare la falsità e la cattiveria a cui può arrivare l’essere umano pur di raggiungere il suo scopo. Vi immaginate se Walt Disney avesse adottato questa versione della fiaba? Non penso che oggi saremmo ancora qui a cantare che “I sogni son desideri di felicità”.
Con le fiabe di Andersen ci spostiamo in Danimarca e a queste si aggiunge un elemento che le differenzia da quelle dei Grimm: la religione. Le fiabe arrivano dai sostrati popolari e ne presentano le tipiche connotazioni, religione inclusa; solo che quelle dei Grimm tendono a presentare meno questo elemento, mentre in quelle del poeta danese emerge di più perché esse rappresentano la difficoltà dello scrittore di conciliare elementi pagani ed elementi religiosi. Questa lacerazione è ben evidente in molte fiabe, specialmente se consideriamo la presunta (ma molto probabilmente certa) queerness dell’autore in un periodo bigotto e certamente non di lunghe vedute come l’Ottocento.
Per quanto criticabile, Walt Disney ha fatto un lavoro simile a quello dei fratelli Grimm: ha attinto da un grande calderone di cultura e tradizioni popolari per tirare fuori, con le armi dell’animazione e della fantasia, dei racconti in cui una protagonista affronta il cattivo di turno, che metterà a dura prova la sua tenacia, e aiutata o meno da altre persone o dalla forza che ritrova all’interno di sé, tutto si trasforma in un connubio di realtà e finzione, esattamente come il mito e le fiabe.
Alessandra Tiesi
