Nel mondo sempre più rapido e intricato del digitale, caratterizzato da un flusso incessante e rapidissimo di informazioni, il fact-checking si è affermato oggi come uno strumento di difesa, in apparenza incontestabile, contro la disinformazione. Tuttavia, anche la pratica stessa del fact-checking necessita di essere messa al vaglio con occhio critico, per poterne sondare il funzionamento e l’efficacia. In un contesto in cui la verità sembra essere sempre più sfuggente, è davvero possibile parlare di fact-checking?
Per fact-checking si intende solitamente un meccanismo di controllo della veridicità delle notizie veicolate dai media, volto a denunciare errori, menzogne e imprecisioni, basandosi sulla corrispondenza delle informazioni ai fatti. Ma è proprio la difficoltà presente nel riconoscere un fatto come tale a rendere questo processo più complesso di quanto non possa sembrare. Mettere in dubbio l’efficacia del fact-checking significa riconoscere la sfida intrinseca nel tracciare una linea netta a distinguere la verità dei fatti da quella delle loro interpretazioni. Il tentativo di separare fatti oggettivi e interpretazioni soggettive, infatti, risulta spesso discutibile. Il fact-checking tradizionale, improntato su numeri incontrovertibili e verificabili, può essere inefficace nel valutare la complessità di questioni scivolose che presentano sfumature contestabili: è sempre possibile, infatti, interpretare gli stessi eventi in modi radicalmente diversi. Un problema che, in realtà, non ha nulla di contemporaneo, ma che è oggetto di riflessione filosofica almeno dai tempi di Nietzsche, il quale già nel 1889 sosteneva che “non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”.[1]
Non si tratta di negare l’esistenza dei fatti che fanno da sfondo materiale alle notizie, la cui corrispondenza è ciò che si vorrebbe verificare. Il vero problema sembra risiedere nell’impossibilità, per i fatti, di rendersi tangibili e dunque conoscibili. Come possiamo davvero conoscere la realtà dei fatti, se le situazioni reali sono molto distanti da noi e non ci è possibile farne esperienza diretta? Il più delle volte, la verifica dei fatti non è che un’illusione.
Pensiamo a notizie di stringente attualità, come quelle che riguardano conflitti, azioni e intenzioni politiche o crisi umanitarie. Spesso di fronte a simili urgenze siamo chiamati a prendere posizione, a farci un’opinione il più possibile oggettiva per poter scegliere da che parte stare. Eppure, il fact-checking per noi non può consistere nell’andare a toccare con mano gli eventi: non abbiamo mai davvero accesso diretto ai fatti, ma solo alle verità così come ci vengono riportate. Abbiamo, dunque, sempre a che fare soltanto con interpretazioni altrui, alle quali ci viene chiesto di affidarci. Tutto ciò vale anche per i giornalisti stessi, fonti e agenti primari della comunicazione, per i quali può risultare decisamente complesso, se non impossibile, verificare l’attendibilità di informazioni e affermazioni infarcite di retoriche spesso ingannevoli.
Il concetto di verità, infatti, lungi dall’essere qualcosa di facilmente definibile, sa essere piuttosto ambiguo. Lo sanno bene, ad esempio, i fact-checkers del sito americano politifact.com, i quali indagano la verità delle affermazioni fatte da personaggi influenti o politici basandosi sul modo in cui esse sono costruite e presentate — come dimostra il “truth-o-meter”, l’indicatore di verità presente sul sito, che non si limita a giudicare nettamente tali discorsi in termini di vero o falso bensì ammette una certa gradualità, riconoscendo la possibilità di parlare di “mezze verità” oppure di cose “vere in un certo senso”. Insomma, sembra che dire la verità sia spesso una questione di retorica, legata al modo in cui la realtà ci appare, per come ci viene raccontata.
Anche nei casi in cui sembra possibile entrare in contatto diretto con la realtà dei fatti, per quanto possano essere rigorosi i metodi di raccolta dei dati essi risultano sempre lacunosi, falsati da interferenze di ogni tipo. Non a caso, i canoni utilizzati per valutare l’obiettività nel giornalismo moderno sono sempre più spesso riferiti al soggetto, piuttosto che all’oggetto, dell’indagine. Al giornalista vengono richiesti “distacco e neutralità verso l’oggetto dell’informazione; imparzialità; […] assenza di secondi fini o di favoritismi”.[2] Il valore centrale diventa dunque l’assunzione di responsabilità da parte della fonte dell’informazione. Meglio allora, quando necessario, ammettere l’incertezza e la parzialità delle proprie informazioni, per risultare paradossalmente più credibili. Per dirla con le parole del giornalista Cairo: “la verità può essere irraggiungibile, sfocata o persino inconoscibile, ma ciò non ci esonera dall’obbligo di essere onesti”.[3]
Più che di fact-checking e verifica della corrispondenza ai fatti bisognerebbe forse parlare, dunque, di source-checking, indagando e mettendo in discussione le fonti dell’informazione, per spostare il problema sul piano della fiducia. Interrogare le fonti, pretendendo da esse trasparenza e onestà intellettuale per poter scegliere di chi fidarsi, potrebbe essere una promettente soluzione.
Giulia Torchio
[1] F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Adelphi, 1983
[2] D. Mc Quail, Sociologia dei media, Il Mulino, 1996
[3] A. Cairo, Graphic Lies, Misleading Visuals in D. Bihanic, New challenges for data design, Springer, 2015
