“IN:titolo”, intervista alla cantautrice Giulia Impache

Nel mese di gennaio è uscito “In:titolo”, il primo album della promettente cantautrice torinese Giulia Impache. Il percorso musicale dell’artista è segnato da una continua ricerca, dalla sperimentazione e questa tensione creativa emerge traccia dopo traccia, nell’atmosfera rarefatta creata da sonorità elettroniche a tratti ipnotiche, con cui la voce di Giulia si fonde alla perfezione. In qualità di redattrice di The Password, ho avuto il piacere di intervistare Giulia Impache e di conoscere meglio attraverso le sue parole la dimensione artistica in cui la sua musica ha preso forma.

Ci sono state delle precise fonti di ispirazione alla base della creazione di “In:titolo”? Eventi o esperienze personali, ad esempio.
In:titolo è l’arrivo di una serie di esperienze personali e di ascolto, come Julia Holter, Arca, Gazelle Twin e Holly Herndon. In Life is short c’è una citazione proprio nel titolo stesso della canzone a We can work it out dei Beatles.

Se dovessi incasellare in uno o più generi la tua musica come la definiresti?
È difficile dare una definizione ben precisa, comunque direi alternative, art pop, elettronica e songwriting. È un po’ come nel cartone animato Balto, il cane-lupo: non è cane, né lupo, so solo cosa non è. 

Com’è stato il tuo percorso nel mondo della musica fino a questo momento?
Studio canto da quasi vent’anni, ho provato generi diversi; verso i 20 anni ho provato il canto jazz e poi ho conosciuto l’improvvisazione radicale, che ha come obiettivo quello di andare oltre i canoni “tradizionali”. Nell’improvvisazione si sperimentano diverse timbriche ed è come se si instaurasse una specie di dialogo tra chi canta e chi suona.
L’improvvisazione radicale sviluppa molto la creatività musicale, è stata un’esperienza importante, che ha permesso una crescita anche a livello personale.
Il brano I’m looking for life è nato da una improvvisazione: partendo dalla drum machine, ho fatto gli accordi e ho iniziato a canticchiare una melodia. (…) Mi piace giocare con le sillabe, con i fonemi, ma ho visto le parole come mezzo per costruire un ponte attraverso cui arrivare agli ascoltatori. Sto facendo una ricerca sulle parole, i suoni. Nella lingua italiana mancano le parole tronche, mi ispiro alla musica del Trecento come tipologia di scrittura per quanto riguarda l’aspetto fonetico. Nel disco ho deciso di inserire le parole per creare un ponte con gli ascoltatori. I brani nascono da emozioni, attraverso un processo di musicalizzazione della parola; improvviso una melodia, poi aggiungo dei suoni e articolo le parole.

Qual è la canzone dell’album in cui pensi di aver espresso maggiormente te stessa e a cui sei più legata?
Outside è il pezzo più personale del disco, è nato dal bisogno di esternare una frustrazione. Mi sono ritrovata a lavorare in un ambiente prettamente maschile, a dover indossare una corazza e a essere spesso fraintesa.
Nel testo della canzone ho scritto: “Ma se tu aprissi quella porta, provassi ad andare oltre?”;
“Quest’aria mi salva”: è la voce l’aria che mi salva, il momento in cui sto meglio è quello in cui sono sul palco.
Per me scrivere è un po’ come dipingere; la presentazione del disco a Torino è stata il 25 gennaio, accompagnata dall’artista visiva Luce Berta.

Marina Palumbieri

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