Mangiare segni: la lingua del cibo

Nonostante gli anni di pandemia, in Italia le catene di ristorazione valgono ormai il 10% del mercato: un’analisi de Il Sole 24 Ore evidenzia in particolare la rapida crescita dei quick service restaurants (quali fast food e in generale i locali che non offrono servizio al tavolo, a differenza dei casual dining: pensiamo ad esempio alla recente apertura torinese di KFC in corso Vittorio Emanuele II, al posto dello storico cinema Ambrosio). 

Da un lato i ristoranti spuntano ormai come funghi dopo un temporale, dall’altro aleggia la sensazione bruciante, data dai social, di doverli provare tutti il prima possibile. Come orientarsi in questo mare di opzioni?

Una risposta interessante arriva da Dan Jurafsky, professore di Linguistica e Computer Science presso la Stanford University e foodie nel tempo libero – tanto da scriverci anche un libro, The Language of Food: A Linguist Reads the Menu, pubblicato nel 2014 e non ancora tradotto in italiano. Da bravo linguista, l’autore si è chiesto come il modo in cui parliamo di cibo sia legato a fattori culturali, temporali ed economici: la sua ricerca spazia dagli aneddoti storici (come il racconto dell’origine del ketchup o del nome inglese per “tacchino”, curiosamente somigliante al nome del Paese mediorientale) fino alle letture critiche dei metatesti del mondo della ristorazione (le “cose che parlano di cibo”, come i menù e le recensioni).

In particolare, Jurafsky e il suo team di ricercatori hanno usato una discreta mole di dati digitali tratti dal mondo della ristorazione e li hanno analizzati utilizzando tecniche di analisi automatica: in particolare è emerso che “la lingua del cibo” è arrivata, nel corso del tempo, a specializzarsi a seconda delle fasce di prezzo. Un esempio immediato di questo slang (che ognuno può controllare nella sua prossima spesa) si trova confrontando prodotti alimentari di fasce di prezzo diverse: un pacchetto di patatine costose cerca di distinguersi dalle altre marche sia tramite comparazioni come “più”, “meno” o “migliore”, sia tramite le negazioni, che in media appaiono cinque volte in più rispetto ad una marca meno costosa (si possono leggere molte frasi come “non fritte”, “senza coloranti artificiali”, “no olio di palma”).

Per quanto riguarda i ristoranti, quelli più economici tendono a parlare dell’ampia scelta che i clienti hanno a disposizione per diminuire la sensazione di “industriale” (“il panino come piace a te”, “12 salse disponibili”). Quelli più cari invece offrono decisamente meno scelta, o non ne offrono affatto: non a caso, in molti ristoranti stellati si trova il menù fisso, la cui narrazione si concentra sulle caratteristiche dell’alimento stesso (l’origine, la preparazione) usando un lessico tecnico e specialistico per segnalare la qualità e la professionalità del locale. Insomma, più il menù contiene parole lunghe, più sarà salato il conto: dal momento che le parole lunghe sono anche spesso le più complesse, il team di ricerca ha stimato che ogni lettera in più rispetto alla lunghezza media di una parola vale circa 18 centesimi.

E per quanto riguarda i ristoranti di fascia media? Dalla ricerca emerge curiosamente che questa categoria usa un linguaggio tutto suo. La comunicazione si concentra su un’esperienza sostanzialmente vaga, parlando del sapore del cibo e di come viene preparato, ma sempre in termini generali: il pollo è “croccante”, la bistecca è “tenera”, la panna nel gelato è “vera panna” e il granchio nella pastasciutta ai frutti di mare è “vero granchio” (ma in un ristorante davvero di alta qualità non sarebbe servito specificare, perché sarebbe stato scontato!). Jurafsky le definisce filler words, ovvero parole che si usano quando bisogna dire qualcosa ma non si trova nulla di più specifico o adatto. Tale processo svuota di significato queste parole “riempitive” e crea una sorta di slogan con lo scopo di formare nuovi bisogni nel consumatore attraverso il continuo cambio di linea narrativa e di innovazioni produttive (i prodotti stagionali di Starbucks, le “limited edition” di McDonald), mantenendo però costante il richiamo alla tradizione, alla genuinità e alla qualità.

Rispetto alle recensioni, prendendo come esempio un’esperienza “da una stellina”, si nota la massiccia presenza di parole negative; inoltre, il racconto è fatto al passato, per sottolineare che l’esperienza è (per fortuna) terminata e che la si sta raccontando per superarla insieme alla persona che la sta leggendo. Insomma, la recensione negativa non parla poi tanto del cibo in sé, ma dell’esperienza psicologica che l’avventore ha vissuto: dalla ricerca emerge quindi che il modo in cui il cibo viene narrato ha, evidentemente, un grosso impatto su come si vive (e si gusta) il cibo stesso, forse più dell’esperienza gustativa stessa.

Arianna di Pascale

Fonti: 

https://wineeconomist.com/2015/05/19/food-language/amp/ https://www.ilsole24ore.com/art/catene-ristorazione-italia-corrono-piu-veloci-settore-record-aperture-AF3YydtC

Per approfondire:  http://www2.unipr.it/~arte/Docenti/bianccibo/calidoni/Testo.htm , http://web.tiscali.it/advertisingadvice/cap4.htm  

Crediti immagine: Simon’s Cat @simonscatofficial by Simon Tofield.

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