L’ergastolo è la sanzione più grave che troviamo nel nostro ordinamento, dal momento che è pena detentiva a vita. La nostra Costituzione all’art. 27 co. 3 sancisce che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Ciò non è altro che l’affermazione della funzione rieducativa della pena, che in virtù della sua polifunzionalità deve raccordarsi con quella retributiva e quella di prevenzione generale.
Come conciliamo la funzione rieducativa e l’ergastolo? Se la intendiamo come ri-socializzazione – possibilità che il soggetto torni a vivere in società rispettando i diritti individuali e collettivi – allora la pena dell’ergastolo pone problemi di compatibilità con l’art. 27. La Corte Cost. ha provato a risolvere questi problemi: l’ergastolano può essere ammesso a una serie di istituti che sono funzionali allo scopo rieducativo. Ci sono i permessi premio (periodi fino a 15 gg.) e il lavoro all’esterno, a cui l’ergastolano può accedere dopo 10 anni di detenzione, la semi-libertà, che può essere concessa dopo 20 anni, permettendo di uscire di giorno e rientrare di sera in istituto. Permessi premio, lavoro all’esterno e semi-libertà non fanno venire meno la pena detentiva. Con la liberazione condizionale l’ergastolano, dopo 26 anni di pena (30 per i c.d. reati ostativi), è in stato di libertà vigilata e assistita. Se non assicurassimo almeno una possibilità di reingresso nella società, allora l’ergastolo sarebbe incompatibile con la nostra Costituzione, il principale strumento di garanzia dei diritti del cittadino.
Ci si è chiesti, allora, se non fosse più opportuno sostituire l’ergastolo con una pena detentiva molto lunga, 30 anni di detenzione per esempio. Fu la proposta della Commissione Grosso di riforma del codice penale nel 2001, senza però venire accolta. Sul piano della comunicazione simbolica l’eliminazione dell’ergastolo appariva come un abbassamento della guardia. D’altronde sono gli stessi cittadini a manifestare resistenze emotive; la prova più vistosa è rappresentata dal referendum abrogativo del 1981.
Discorso diverso va fatto per l’ergastolo ostativo, previsto dall’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario. Per i reati di criminalità organizzata non è possibile accedere alle misure alternative alla detenzione e alla libertà condizionale, a meno che il condannato non collabori con l’autorità giudiziaria (do ut des). La Corte Cost. ha sempre ritenuto che questo meccanismo non fosse contrario alla funzione rieducativa: se non c’è collaborazione non c’è rieducazione, perché vuol dire che il soggetto è ancora legato all’associazione criminale. La collaborazione si lega alla rieducazione. La Cedu, però, non ragiona in questo modo: ci sono casi in cui l’ergastolano collabora per ragioni di interesse; altri in cui non collabora non perché non sia rieducato o sia ancora legato alla associazione criminale, ma per paura che i familiari possano subire ritorsioni. Nel 2019, pertanto, la Cedu condannò l’Italia nella sentenza Viola contro Italia. La Corte Cost., allora, dapprima dichiarò la parziale illegittimità del’art. 4-bis, nella parte in cui precludeva l’accesso dei permessi premio, previa assicurazione della rieducazione e della cessazione di contatti di affiliazione, poi con un’ordinanza “invitò” il legislatore a intervenire, cosa che fece col decreto legge 162/2022. Quest’ultimo stabilisce una serie di condizioni per accedere alla liberazione condizionale, che, oltre al risarcimento del danno, prevedono una probatio diabolica: una persona condannata e da moltissimi anni in carcere deve dimostrare di non avere collegamenti con la criminalità organizzata e che non ci sia il pericolo di ripristino di tali collegamenti; per farlo, la norma dice che deve allegare degli elementi diversi dal comportamento tenuto in carcere, dalla partecipazione all’attività di rieducazione e dalle dichiarazioni di dissociazione. Dunque formalmente oggi abbiamo superato l’ergastolo ostativo, ma gli elementi di prova che vengono richiesti sono molto difficili da dimostrare.
Nel 2015 venne pubblicato per la prima volta Fine pena: ora di Elvio Fassone, che fu magistrato, componente del Consiglio superiore della magistratura e senatore. Nel 1985 a Torino si celebrò un maxi processo alla mafia catanese e Fassone venne incaricato di esserne il presidente. Tra gli imputati condannò all’ergastolo Salvatore, allora solo un ragazzo. Non poteva fare diversamente: la legge doveva essere applicata. Qualche tempo dopo, però, decise di scrivergli una lettera e allegarle un libro, Siddharta, mosso da una conversazione avuta con Salvatore prima della sentenza: “Presidente, lei ce l’ha un figlio? Glielo chiedo perché le volevo dire che se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo”. Fu l’inizio di una corrispondenza durata 26 anni, finché il giudice non venne a conoscenza del suicidio di Salvatore, ormai cinquantenne. Nel libro Fassone riportò questa corrispondenza e il riuscito processo di rieducazione di Salvatore, minato però dalla burocrazia, dai cambi di direttore, dai trasferimenti in altri istituti penitenziari, dal comportamento degli altri detenuti, a causa del quale ci rimettono tutti, dall’opinione pubblica. Leggerlo è un buon modo per interrogarsi sul significato della pena.
Nicole Zunino
Fonti
C.F. Grosso, M. Pelissero, D. Petrini, P. Pisa, Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè, Torino, 2023
E. Fassone, Fine pena: ora, Sellerio, Palermo, 2024
