Usa: gli studenti stranieri dovranno rendere pubblici i social

Dopo settimane di attesa, gli Stati Uniti riaprono le porte agli studenti internazionali. Il Dipartimento di Stato ha annunciato la ripresa delle procedure per la concessione dei visti, ma con una nuova condizione: chi vuole studiare negli USA dovrà rendere pubblici i propri account social per consentire alle autorità statunitensi di effettuare approfonditi controlli. Chi si rifiuta, potrà essere respinto.

La decisione arriva a seguito di un blocco temporaneo delle procedure di rilascio dei visti, imposto a maggio in attesa di un rafforzamento delle misure di controllo sui richiedenti.

Secondo le nuove istruzioni del Dipartimento di Stato, le ambasciate e i consolati statunitensi dovranno controllare post e messaggi di chiunque voglia ottenere un visto studentesco, alla ricerca di “qualsiasi indicazione di ostilità verso i cittadini, la cultura, il governo, le istituzioni o i principi fondanti degli Stati Uniti”. I funzionari dovranno inoltre prestare attenzione a individui che “sostengono, aiutano o supportano terroristi stranieri designati e altre minacce alla sicurezza nazionale; o che perpetrano molestie o violenze antisemite illegali”.

Il rifiuto di rendere il profilo pubblico potrà essere interpretato come un tentativo di eludere i controlli o di nascondere la propria attività, secondo la nota diffusa mercoledì dal Dipartimento.

Le università statunitensi dipendono fortemente dagli studenti stranieri, che nel solo 2023 hanno conseguito oltre 1,3 milioni di lauree nel paese. Molti di loro attendevano con ansia il provvedimento per riprendere le procedure sui visti, dati i tempi stringenti in vista del nuovo anno accademico. L’amministrazione aveva già imposto in passato alcuni requisiti di controllo dei social media, ma questi riguardavano principalmente studenti accusati di aver partecipato a proteste contro le azioni di Israele nella Striscia di Gaza.

Secondo diversi funzionari del Dipartimento di Stato, le indicazioni per i controlli sarebbero eccessivamente vaghe. Non è chiaro, ad esempio, se la pubblicazione di una foto con una bandiera palestinese su un account X possa comportare un esame più approfondito del profilo dello studente.

La stretta sui visti non è un’azione isolata, ma si contestualizza in una guerra ben più ampia: quella avviata dall’amministrazione Trump contro il mondo dell’istruzione universitaria americana.

Le università nel mirino: la battaglia ideologica di Trump

L’ex presidente Donald Trump ha da tempo dichiarato guerra alle università, considerate le roccaforti del progressismo negli USA e di idee definite da diversi conservatori come “marxiste” e “anti-americane”.

“Taglieremo i fondi alle scuole che sostengono l’assalto marxista alla nostra eredità americana e alla civiltà occidentale stessa,” aveva affermato Trump tempo fa. E ancora: “I giorni in cui sovvenzioniamo l’indottrinamento comunista nei nostri college stanno per finire.”

Molte delle più prestigiose università statunitensi, fra cui Harvard e la Columbia University, sono state accusate ripetutamente di non avere preso misure sufficienti contro gli episodi di antisemitismo durante le proteste pro-Palestina nei campus. Ma le motivazioni dell’attacco a queste istituzioni vanno ben oltre.

Le università d’élite americane, come Harvard, Columbia, Princeton o Brown, sono viste da ampi settori della destra come istituzioni elitarie e politicamente schierate: troppo costose, dominate da professori e ideali liberal, e inclini ad ammettere studenti secondo logiche di affirmative action (politiche volte a promuovere la partecipazione di gruppi sottorappresentati o storicamente svantaggiati) piuttosto che di merito.

Molti conservatori le accusano di marginalizzare le opinioni di destra e di essere delle vere e proprie incubatrici di studenti indottrinati secondo l’ideologia “woke, invece di concentrarsi sul formare figure professionali pronte per il mercato del lavoro.

Nel frattempo, Trump ha bloccato miliardi in finanziamenti per la ricerca, chiesto l’espulsione di diversi studenti internazionali e proposto “audit ideologici” sui corsi universitari. Harvard ha rifiutato queste richieste – compresa quella di nominare un osservatore esterno per monitorare i programmi ritenuti “ideologicamente compromessi” – scatenando l’ira dell’amministrazione.

Oggi, molte università si trovano in bilico, fra cui la Columbia (che spera di recuperare 400 milioni di dollari in fondi dopo aver accettato alcune richieste del governo), la Brown (che rischia di perdere 510 milioni), la Northwestern (sotto tiro per 790 milioni), la Cornell, l’Università della Pennsylvania e Princeton.

Un attacco contro l’élite accademica

Il tema delle università negli USA è profondo e complesso. Le università americane d’élite rappresentano un caposaldo dell’establishment progressista, un bacino storico del voto democratico e, per molti, un simbolo di ingiustizia sociale: solo l’1% degli studenti americani le frequenta, ma ricevono una fetta consistente dei finanziamenti pubblici. Il resto della popolazione studentesca si divide tra community college, università pubbliche spesso sottofinanziate e percorsi formativi meno prestigiosi.

La strategia di The Donald si muove sul paradigma dell’identità politica, utilizzando l’università come campo di battaglia culturale. È la retorica dell’“America vera” contro le università elitarie e woke, diventata centrale nella campagna di Trump.

Lo scontro offre il fianco, tuttavia, a due riflessioni: da un lato, permette di osservare come le università diventino sempre più oggetto di politiche securitarie, volte al controllo e all’oppressione del dissenso. Dall’altro, la mossa di Trump tocca un nervo scoperto del sistema americano, legato alle percepite diseguaglianze nel sistema educativo.

Nel frattempo, il futuro di migliaia di studenti si muove su un filo sottile, e la ricerca ha subito un colpo durissimo. Una cosa è però certa: la battaglia tra Trump e le università è tutt’altro che finita.

Sara Stella

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