Come l’umanità racconta la morte

Temuta, invocata, odiata o idolatrata, la morte resta l’unica certezza nell’esistenza di ogni essere vivente. Un topos universale di cui, a volte, si evita di parlare, ma che inevitabilmente abita i nostri pensieri. La sua raffigurazione più popolare è quella di uno scheletro avvolto in un lungo mantello nero e armato di falce. Tuttavia, nell’arte la sua immagine appare spesso in forme diverse: basti pensare al dipinto di Arnold BöcklinAutoritratto con la Morte che suona il violino“, dove è ritratta nell’atto di suonare lo strumento, o a “Il trionfo della Morte” di Bartolo di Fredi, in cui assume le sembianze di un’anziana donna a cavallo. Anche nella poesia la morte è evocata con epiteti potenti come “il tristo mietitore” o “la nera mietitrice“. Nella mitologia greca è conosciuta come Thanatos, mentre in quella slava prende il nome di Morana.

Ogni individuo e ogni cultura hanno sviluppato una propria visione della morte – aspetto inevitabile della condizione umana – elaborando riti e simboli per dare senso a questo passaggio finale. Conoscerli non solo aiuta a capire come ogni popolo affronta la fine della vita, ma offre anche uno specchio sul modo in cui concepisce la vita stessa.

Nell’Antico Egitto si considerava la morte come un passaggio verso una nuova esistenza. Gli Egizi credevano fermamente nell’aldilà e vedevano la vita terrena come una preparazione a ciò che sarebbe venuto dopo. Le pratiche funerarie, come la mummificazione e la costruzione di tombe monumentali, riflettevano questa convinzione. Il Libro dei Morti, una raccolta di formule magiche e preghiere, aveva lo scopo di guidare l’anima nel viaggio ultraterreno e aiutarla a superare le prove divine.

Anche nell’Antica Grecia la morte era vista come un destino inevitabile ma non definitivo: le anime dei defunti raggiungevano l’oltretomba, regno di Ade, dove sarebbero rimaste per l’eternità. I riti funebri erano fondamentali per assicurare che l’anima trovasse pace e non vagasse inquieta: si praticavano sacrifici animali e si offrivano cibo e bevande.

I Romani, in continuità con i Greci, attribuivano grande importanza alla memoria dei defunti. Attraverso rituali familiari e pubblici, cercavano di mantenere vivo il legame con gli antenati. Le pratiche includevano sia la cremazione sia la sepoltura, e le tombe spesso contenevano oggetti personali. Celebrazioni come le Parentalia, una festa in onore degli avi, rafforzavano il senso di continuità tra vivi e morti.

Oggi, le celebrazioni dedicate ai defunti variano da Paese a Paese, ma in molte culture è possibile ritrovare elementi comuni: la memoria, il rispetto e un senso di connessione che trascende la morte.

In Italia, il giorno della commemorazione cade il 2 novembre ed è fortemente legato alla tradizione cristiana. È consuetudine visitare i cimiteri, pregare e rendere omaggio ai propri cari. Ogni regione conserva usanze specifiche: in Sicilia, ad esempio, si crede che siano i defunti stessi a portare doni ai bambini, come gli scardellini, dolci a forma di ossa fatti con zucchero e mandorle, e la frutta martorana, frutti realistici modellati con pasta di mandorle.

In Cina, il culto degli antenati rappresenta un pilastro culturale, grazie al Confucianesimo e al Taoismo. I defunti sono visti come spiriti protettori della famiglia e vengono onorati con offerte di cibo, incenso e denaro finto. Durante la Festa dei Fantasmi, celebrata annualmente, i vivi rendono omaggio agli spiriti affinché possano vivere in pace nell’aldilà.

In Giappone, la visione della morte è segnata dall’influsso del Buddhismo e dello Shintoismo. I riti funebri buddhisti prevedono la cremazione e la conservazione delle ceneri in urne, poi collocate in tombe familiari. Le cerimonie commemorative continuano per mesi o anni e riflettono la credenza in una vita spirituale oltre la morte. Al contrario, lo Shintoismo considera impuro il trapasso e i rituali servono a proteggere i vivi e purificare gli ambienti.

Non si può non menzionare il celebre Día de los Muertos messicano. Celebrata il 1 e il 2 novembre, questa festività ha origini precolombiane, poi integrate con il cattolicesimo introdotto dai conquistadores spagnoli. In Messico, la morte non è vista come un evento luttuoso, ma come una festa di ricongiungimento con i defunti. La memoria è gioiosa, vissuta tra musica, colori vivaci, cibo e simboli potenti. Le famiglie allestiscono ofrendas, ovvero altari domestici decorati con fiori di cempasúchil (tagete), fotografie, candele, cibi e bevande amate dai defunti. Le calaveras, teschi di zucchero o cioccolato, e la Catrina, scheletro femminile elegantemente vestito, sono ormai icone riconoscibili in tutto il mondo. Più che una commemorazione, il Día de los Muertos è un inno alla vita attraverso il ricordo di chi ci ha lasciato.

La morte, nella sua ineluttabilità, ha generato nei secoli paure, miti, riti e simboli che raccontano molto non solo sul modo in cui ogni popolo affronta la fine, ma anche sul modo in cui concepisce la vita stessa. Dalle tombe egizie alle ofrendas messicane, dai cimiteri italiani alle urne giapponesi, ogni gesto rivolto ai defunti è un ponte tra passato, presente e futuro. Parlare di morte non significa solo accettarne la presenza, ma anche interrogarsi sul senso profondo dell’esistenza. In fondo, come diceva il filosofo Montaigne: “meditare sulla morte è meditare sulla libertà“.

Chiara D’Amico

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