Nascere da una macchina: il futuro artificiale della vita

Possiamo nascere anche in assenza di un corpo che ci ospiti?

Fin dagli albori, l’essere umano è sempre venuto al mondo in un solo modo: attraverso il corpo materno. Sebbene la scienza abbia affinato nel tempo innumerevoli tecniche riproduttive, i passaggi fondamentali sono rimasti sempre gli stessi: dalla fecondazione all’impianto, per arrivare alla gestazione e infine al parto.

Ma se questa non fosse l’unica via possibile?

L’ectogenesi

Con il termine ectogenesi si fa riferimento a quelle tecniche che permettono la creazione e lo sviluppo della vita al di fuori dell’utero. 

Per quanto il nome possa suggerire qualcosa di distante dall’immaginario comune, una forma di ectogenesi parziale è rappresentata dall’incubatrice neonatale: un’apparecchiatura presente in alcune strutture ospedaliere che consente di accogliere temporaneamente neonati prematuri o sottopeso, permettendo loro di completare lo sviluppo in un ambiente protetto e controllato, e contribuendo così, in un certo senso, a portarne a termine la gestazione.

L’ectogenesi completa — che, come il nome suggerisce, dovrebbe arrivare a coprire tutte le fasi dello sviluppo, dalla fecondazione fino al parto, prendendo a tutti gli effetti il posto dell’utero (si parla pertanto anche di utero artificiale) — è invece una possibilità che esiste, per ora, solamente nella mente dei ricercatori, ma che, già solo rimanendo un’idea, sta alimentando il dibattito etico sulle possibili implicazioni che una tecnica di procreazione totalmente artificiale come questa potrebbe avere. 

Gli ostacoli tecnologici

Per poter realizzare una forma di ectogenesi completa, i ricercatori devono superare 3 ostacoli principali:

  1. La creazione di un riparo tridimensionale: bisogna innanzitutto realizzare un ambiente artificiale protetto — in cui poter impiantare l’embrione e garantirne lo sviluppo — in grado di fornire il nutrimento, assicurare lo scambio di ossigeno così come uno spazio adeguato all’espulsione dei rifiuti e permettere la regolazione della temperatura. Nel tempo ne sono stati sviluppati vari prototipi a cui sono stati sottoposti principalmente animali. Uno di questi — testato su agnelli e topi sin dagli anni ’90 — era formato da un contenitore in cui delle pompe simulavano l’attività della placenta. Più recentemente, sono state progettate le biobags, ossia delle sacche biologiche riempite con liquido amniotico sintetico in grado di assistere, nell’esperimento in esame, un agnello nato prematuramente, permettendogli così di sopravvivere.
  2. Il reperimento di un equivalente del liquido amniotico: occorre a questo punto trovare un sostituto efficiente quanto il liquido amniotico, sfida in parte superata con l’utilizzo di liquidi sintetici, i quali, però, probabilmente non saranno mai applicabili all’essere umano.
  3. La cura del feto: è necessario infine individuare un surrogato della placenta, capace di assicurare il necessario per la crescita e lo sviluppo del feto. Tra le tecnologie in sperimentazione rientrano gli ossigenatori miniaturizzati e i sistemi ECMO (acronimo di ExtraCorporeal Membrane Oxygenation, ossigenazione extracorporea a membrana). Questi ultimi sono già stati usati in terapia intensiva neonatale, ma ancora non sono ritenuti adatti a una gestazione prolungata. 

Una delle sfide maggiori consiste nello sviluppo di una tecnologia in grado di permettere il trasferimento sicuro del feto dall’utero organico all’utero artificiale, evitando, però, che esso respiri. I polmoni, infatti, non potrebbero ancora reggere questo sforzo, in quanto ancora incompleti.

Perché si fa ricerca in questo campo?

Secondo i dati SINPIA del 2023, circa 30 mila bambini ogni anno nascono pretermine, cioè prima della 37° settimana della gestazione. Solo il 30% dei nati alla 22° settimana riesce a sopravvivere, mentre la percentuale sale a 55% per quelli nati durante la 23° settimana (grazie alle nuove tecnologie, questi dati sono in costante miglioramento).

I medici e i ricercatori vogliono rendere sicura la pratica dell’ectogenesi, anche per favorire la sopravvivenza di tutti quei neonati prematuri che, senza tecniche come questa, non avrebbero alcuna chance di vita. 

Il reale interesse dei ricercatori è rivolto, quindi, soprattutto all’ectogenesi parziale, anche se i progressi in questo campo potrebbero portare indirettamente allo sviluppo dello stesso utero artificiale completo.

Difficoltà etiche e femminismo

Tuttavia, alcuni studiosi affermano che l’ectogenesi potrebbe inasprire le già presenti disuguaglianze economiche, divenendo un lusso e determinando, quindi, una disparità sanitaria tra i cittadini. Altri dubbi riguardano i criteri secondo cui bisognerebbe mettere in funzione questa nuova tecnica: quali limiti etici dovremmo imporci nel suo utilizzo? 

Anders Günther, scrittore e filosofo, afferma che lo sviluppo tecnologico sia stato più rapido dell’evoluzione etica. L’essere umano, perciò, si ritroverebbe a dover gestire tecnologie che vanno ben oltre la sua capacità morale, dimostrandosi inadatto a gestirne il potenziale creativo e distruttivo (concetto che Anders esprime nella teoria del dislivello prometeico). 

Per Shulamith Firestone, attivista e scrittrice canadese, l’ectogenesi rappresenterebbe uno strumento di emancipazione femminile, per cui la donna, normalmente considerata una sorta di incubatrice con il solo scopo di generare figli, sarebbe finalmente svincolata da ogni incasellamento primitivo, riacquistando così la sua libertà individuale. 

L’ectogenesi sfida l’idea stessa di maternità e famiglia e il nostro modo di intendere la gestazione, reinterpretando il legame biologico tra madre e figlio.

Ma il dibattito non si ferma qui

L’ectogenesi potrebbe anche rappresentare un’alternativa all’aborto, aprendo nuovi spunti di riflessione nel dibattito. In caso di interruzione volontaria della gravidanza, dunque, sarebbe accettabile che lo Stato decidesse di continuare la gestazione in utero artificiale? Si passerebbe forse a vietare l’aborto per incoraggiare la pratica dell’ectogenesi? E se così fosse, cosa ne sarebbe del parere delle madri?

Se abortire potesse significare anche trasportare fuori di sé il feto per continuare la gestazione altrove, l’aborto sarebbe più facilmente accettato? E ancora, come dovrebbe sentirsi un individuo nato da ectogenesi rispetto a coloro che vengono alla luce nella maniera considerata naturale?

Tutte queste sono domande che vanno a inserirsi in un discorso già fortemente politicizzato e polarizzante, ma che — nel caso questa tecnologia venisse davvero sviluppata — dovranno necessariamente essere affrontate, che si sia moralmente preparati o meno.

Octavio Moretto 

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