Cinema del Disagio: cinque horror che fanno della prevedibilità la loro forza

«Perché ci fate questo?» «Perché ce l’avete permesso»: pellicole capaci non solo di coinvolgere lo spettatore, ma che mirano a renderlo colpevole di star guardando.

Qual è la fonte della paura? Molte persone risponderebbero l’inaspettato: l’horror odierno non per niente gioca con i jumpscare, i rumori forti e le immagini disturbanti per far venire i brividi allo spettatore. L’ansia crescente derivata dall’ignoto rende l’esperienza coinvolgente, ma questa struttura narrativa oggi è talmente riciclata da non riuscire quasi più a impattare realmente. Così, usciti dalla sala, il ricordo della pellicola si sovrappone a quello delle mille altre già viste. 

Il mercato ormai saturo rende praticamente impossibile soddisfare le esigenze del grande pubblico, che sente sì la momentanea adrenalina, ma è consapevole che essa è destinata a sedimentare nella mediocrità. In questi schemi tanto rigidi spicca come un faro nella notte un altro tipo di cinema, spesso grottesco e sconvolgente, che utilizza la consapevolezza del pubblico come arma a proprio favore. È il cosiddetto Cinema del Disagio

Il noto, l’evidente situazione problematica e l’incapacità delle vittime di sottrarsi a essa nonostante i segnali estremamente chiari (già sottoposti al pubblico ma ignorati nella storia) rende la visione di questi lungometraggi frustrante, una vera e propria tortura non solo per i personaggi, ma anche per chi fruisce del prodotto. I registi non mirano esclusivamente a coinvolgere lo spettatore, ma lo lo rendono complice: in queste pellicole i sadici non sono solo i personaggi, ma anche chi decide di arrivare fino alla fine, in un crescendo d’ansia che raggiunge l’apice aspettato, ovvio, ma soprattutto inevitabile, lasciando solamente l’amaro dell’impotenza. 

Ecco cinque horror anticonvenzionali, che mirano a impressionare lo spettatore e a lasciare un segno indelebile. 

Creep (2014, regia di Patrick Brice)

Dopo aver risposto a un annuncio online, un cameraman porta con sé gli spettatori a casa di uno sconosciuto che intende pagarlo per filmare una sua giornata. Questo grottesco found-footage innesta una lenta spirale di follia in cui, fin da subito, è più che evidente vi sia qualcosa di profondamente sbagliato. Nonostante ci siano solo due attori e il budget sia estremamente basso (meno di $500), è un horror eccellente per via della sua creatività e della sua bizzarria, accompagnate da un senso d’inquietudine crescente e debilitante, che suscita più di una domanda sul comportamento di chi sta filmando.

Funny Games (2007, regia di Micheal Haneke)

Remake scena per scena del film omonimo del 1997, Haneke riprende il suo stesso lungometraggio per avvicinarsi ulteriormente alla sua visione primaria, con tecniche cinematografiche e risorse più ampie. Tra i capostipiti del genere home invasion, Funny Games vi aggiunge elementi rivoluzionari come la rottura della quarta parete e la ricerca diretta della complicità del pubblico. Gli antagonisti fanno quel che fanno nella consapevolezza di essere osservati, rendendo esplicito che non sono lì per altro che per il piacere dello spettatore: chi guarda è colpevole tanto quanto chi sta agendo.

The Heretic (2024, regia di Scott Beck e Brian Woods)

Due ragazze missionarie mormoni bussano alla porta di quello che all’inizio sembra un innocuo individuo interessato alla teologia, in una casa che diventerà sempre più ovvio essere un grande specchio per le allodole. Horror più classico, probabilmente è quello che presenta meno innovazioni, ma non per questo è meno valido. Come negli altri titoli, anche qui si crea tensione immediata, sebbene in questo caso sia più complicato individuarne subito la causa, e, in modo ironico e cinico, si procede in una critica alla religione, che è allo stesso tempo carnefice e salvezza.

The House That Jack Built (2018, regia di Lars von Trier)

Il film segue la storia del serial killer Jack e di cinque dei suoi “capolavori“. Gli omicidi vengono annunciati, ma non per questo sono meno crudi. A raccontare le atrocità è Jack in persona, in un lungo e tormentato flusso di coscienza che utilizza la narrazione diretta come mezzo di manipolazione dello spettatore, che deve essere più volte riportato alla reale crudeltà dei suoi gesti per non finirne catturato. 

Speak No Evil (Gæsterne, 2022, regia di Christian Tafdrup) 

In questo film danese una famiglia si reca a trovarne un’altra conosciuta durante una vacanza in Italia. Il film si impone come un’intensa critica alla passività umana, alla sottomissione dell’istinto alle convenzioni sociali e a come la paura del conflitto possa condurre a esiti ben più devastanti di uno scontro diretto. Inizialmente sottile, il disagio non abbandona lo spettatore per un solo istante nel corso della pellicola, raggiungendo il suo climax nel terzo atto, che rende il film magistrale. Ciononostante, nel remake del 2024 girato da James Watkins si è scelto di cambiare il finale, ottenendo come risultato una perdita del significato originale. 

In un’epoca in cui, dunque, l’horror fatica a sorprendere, il Cinema del Disagio sceglie di utilizzare la mancanza di sorpresa per colpire in profondità il pubblico. Non offre colpi di scena o deus ex machina che ribaltano la situazione, ma costringe alla frustrazione dell’inevitabile. Nonostante le differenze stilistiche, tematiche e intenzionali tra questi film, ognuno di loro mostra personaggi incapaci o privi della volontà di cambiare il corso degli eventi, proprio come lo spettatore inchiodato a guardarli.

Nemo Cirillo

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