Una delle letture più intense che abbia fatto nell’ultimo periodo è stata “La trama alternativa” di Giusi Palomba: un libro che lavora a partire dagli strappi e dalle crepe che si aprono nelle situazioni di abuso nelle persone coinvolte e nelle comunità che abitano. E questi strappi non possono essere lasciati lontano dagli sguardi, nascosti da una retorica che, facendosi forte del falso senso di sicurezza a buon mercato, offre come soluzione il credo cieco nella punizione esemplare e l’uso della violenza e della repressione. Il filo va ripreso, lo strappo va riparato. Per farlo bisogna ripartire da ciò che si intravede nella crepa: le fragilità, le paure e i dolori. Ma anche dalla fiducia: nella comunità e nella sua capacità di trasformare e trasformarsi.
Grazie a Giusi Palomba per avermi aiutato a intessere questo dialogo.
Vorrei iniziare il dialogo sul tuo libro andando alla radice: quando è nata l’idea di raccontare quest’esperienza? Qual è stato il percorso che ti ha portato fino alla pubblicazione de La trama alternativa?
I temi contenuti nel libro mi accompagnano da molti anni, ma ho capito di essere pronta a scriverne in maniera più estesa soltanto in tempi recenti. Avevo bisogno che le parole non fossero soltanto teoria, che le riflessioni e le pratiche incrociate si dispiegassero in un tempo lungo, e volevo evitare di fermarmi a una visione troppo entusiasta – o troppo pessimista – delle cose. Il percorso non si è concluso, chiaramente, ma la “sosta” necessaria alla scrittura è stata interessante e soprattutto ha consentito a “La trama alternativa” di assumere le numerose altre forme in cui oggi esiste in me e per fortuna anche in dimensioni più collettive.
Il libro affronta i temi della complessità del reale e della possibilità di trovare dei modi di agire che non sfuggano a questa complessità ma la riconoscano e la rispecchino. C’è una domanda che poni all’interno del libro che rispecchia bene la difficoltà nel conciliare delle pratiche di tipo trasformativo all’interno della cornice di una società polarizzata che offre soluzioni semplici e pensieri binari: “che tipo di società può tenere insieme il superamento del punitivismo con la difesa di chi subisce la violenza?”. Credo che questa domanda sia un po’ il nocciolo di tutto: possiamo fare una riflessione ripartendo da qui.
Il punitivismo è un pensiero a senso unico, è l’unica idea che abbiamo in mente: escludere e punire chi agisce violenza ed esaurire in questa punizione ogni possibile idea di giustizia e sicurezza. Ma le cose non sono mai così semplici, così lineari, e se consideriamo solo il criterio dell’efficacia, questo metodo non sembra funzionare poi così bene. Le pene si inaspriscono, la criminalizzazione aumenta, ma la violenza nelle nostre società non diminuisce, anzi, questi stessi processi contribuiscono spesso ad aggravarla. Puntare il focus sulla responsabilizzazione – o accountability, che conserva molte più sfumature – invece che sulla punizione è un modo di tentare altre strade, ma c’è sempre il terrore che questo voglia dire mettere in pericolo chi la violenza l’ha subita. Eppure, contrariamente a quanto si pensi, le pratiche comunitarie alternative a carcere e polizia rimettono al centro la persona che subisce la violenza e passano per un percorso di responsabilizzazione di una intera comunità, presupposti non sempre presenti quando ci si perde nei meandri della giustizia punitiva.
Uno dei passaggi su cui ho riflettuto molto è quello in cui parli del ruolo dei social network nell’articolazione delle lotte dal basso e dell’attivismo: se da un lato i social media possono creare di nuovi spazi inclusivi, dall’altro questi spazi non sono privi di aspetti problematici. Dal rischio di un eccessivo slegamento dal reale al rafforzamento di un maggiore individualismo a scapito delle possibilità di costruzione di una collettività più partecipata. In che modo i nuovi mezzi di comunicazione digitali hanno e stanno influenzando il modo in cui ci relazioniamo e la costruzione di reti di lotta e di discussione dal basso? In che modo possiamo ripensare il loro utilizzo per sottrarre la lotta e il conflitto dai rischi dell’appiattimento, della personalizzazione e della monetizzazione della società neoliberale?
A nessuna delle domande e dei dubbi posti nel libro posso rispondere da sola. Quello che mi interessa è innescare e partecipare a conversazioni su aspetti della vita in comune che abbiamo normalizzato, e l’uso dei social è uno di questi aspetti. I social permettono interazioni mai viste prima, ad esempio la partecipazione in caso di disabilità, una divulgazione ampia di temi che forse erano di nicchia, la possibilità di raggiungere persone affini dalla solitudine del proprio paesino di provincia, tutti elementi che suscitano un entusiasmo tale da offuscare troppo spesso gli interessi commerciali delle piattaforme digitali di massa, i problemi di privacy o l’impatto negativo ormai assodato sulla salute mentale giovanile, giusto per elencare alcuni dei rischi. Il punto è che aprire critiche sul tema sembra impossibile senza provocare l’ira di chi gestisce potenti imperi digitali che funzionano da cassa di risonanza. Il dissenso, allora, diventa qualcosa da silenziare o neutralizzare, orientando le reazioni delle masse di follower. L’unico antidoto che vedo è continuare a fare critica, e aprire spazi di confronto reale e collettivo sul tema.
I social media influiscono anche e soprattutto sul linguaggio: qual è il suo ruolo nella costruzione delle narrazioni intorno alla violenza di genere? Tu come ti approcci al linguaggio visto da questa lente quando scrivi?
Diciamo che non condivido l’idea molto diffusa che un linguaggio spinto dai media possa essere poi valido per chiunque, indipendentemente da geografie, vissuti e intersezioni, anche quando si parla di violenza di genere. Le persone e le comunità si autodeterminano anche nei linguaggi che producono, nonostante i continui tentativi di universalizzare termini e narrazioni. Un’espressione usata su Instagram può essere un modo per introdurre un tema, ma non sempre è l’unica chiave di lettura valida per ogni contesto, soprattutto quando si tratta di forme imposte dal femminismo bianco mainstream del nord globale, che spesso fatica a confrontarsi con visioni altre da quelle della propria realtà.
Il libro si articola in due parti: partendo dall’esperienza che hai vissuto personalmente arrivi a tessere un quadro più ampio che tiene conto delle narrazioni predominanti sulla violenza di genere e delle possibilità trasformative e antipunitive che le possono contrastare e riplasmare. Queste possibilità di pensiero e di azione non sono così astratte come possono sembrare: come mostri nel libro, hanno già dietro una storia importante fatta tanto di teoria quanto di pratica. Ma il passaggio dalla teoria alla pratica non è un percorso lineare: come emerge anche dal libro è un percorso fatto di difficoltà, di fatica, di momenti dolorosi e anche di fallimenti. Puoi parlarci di queste difficoltà? Quali sono gli aspetti più difficoltosi del tentativo di trasformare l’ideale in concreto? Come gestire la paura e gli elementi di irrisolto che si possono incontrare durante un percorso trasformativo?
La paura e gli elementi di irrisolto sono comuni a tutte le modalità di ricerca di giustizia, ma parliamo di rischi soltanto quando usciamo dai canali imposti, quando rinunciamo ai percorsi obbligati del punitivismo. Ci sono persone che pensano che il carcere non sia una soluzione, e ci sono persone che credono che davanti a una violenza, generarne altra non serva poi a molto. L’espressione di queste sensibilità, urgenze, convinzioni non viene di sicuro incoraggiata pubblicamente tanto quanto il punitivismo, che invece fa gioco alle società che si spostano sempre più a destra. Il passaggio dalla teoria alla pratica è ostico perché si tratta di mettere in discussione un intero sistema di pensiero, di andare controcorrente, a volte rischiando molto in termini di accettazione sociale. Tuttavia, per chi crede che la soluzione alla violenza non sia “rinchiudere qualcuno e buttare via la chiave”, a volte risulta più facile affrontare la possibilità dei fallimenti, della frustrazione e dei momenti dolorosi poiché la speranza di un cambiamento e la dimensione collettiva in cui coltivarla possono rappresentare una prospettiva meno cupa che dipendere da pratiche di privazione di libertà ed esclusione per affrontare i problemi.
Nel libro parli di molte esperienze a cui hai partecipato e fai riferimento a diversi studi, saggi e personalità che si muovono sulla scia del pensiero abolizionista, antipunitivista e anticarcerario. Come si può approcciare a questo modo di pensare chi non ha avuto modo di entrarci in contatto, quali strade può seguire, quali se ne possono ancora tracciare?
Per me è questione di aguzzare le antenne su ciò che già succede ai margini, sulle forme di riduzione del danno, sull’antipunitivismo insito nelle comunità che da sempre hanno dovuto evitare la violenza dello stato. A volte come dicono Angela Davis e le altre autrici in “Abolizionismo, Femminismo, Adesso” (edizioni Alegre), è questione di riconoscere un “ecosistema” di realtà e pratiche, riconoscere insomma un pattern, cercare alleanze e spunti, perché di sicuro l’antipunitivismo sta già trovando le sue strade, sta già accadendo, anche quando non viene percepito.
Sofia Racco
Fonte
Crediti immagine di copertina: https://www.ilmattino.it/cultura/libri/la_violenza_di_genere_responsabilita_collettiva_libreria_la_trama_alternativa_di_giusi_palomba-7307884.html
