La vita ed il lavoro di chi ha scelto di dare voce ai palestinesi.
Per inviare un articolo, un corrispondente da qualunque parte del mondo dove sia possibile reperire liberamente informazioni sulla vita politica, sociale e culturale della nazione e dove sia disponibile una connessione Internet stabile, ha solo bisogno di sedersi, comporre l’articolo ed inviarlo in tempo zero.
La giornata di lavoro per Sami al-Ajrami invece è parecchio diversa da quella dei suoi colleghi in giro per il mondo, costretto dalla situazione e dal suo lavoro a lasciare casa ed emigrare a sud. Ogni giorno, dopo aver reperito le informazioni necessarie sugli avvenimenti più significativi delle principali vicende, percorre a piedi i trenta minuti di strada fra casa sua e l’ospedale più prossimo. Lì può avere accesso all’elettricità e a una rete stabile grazie al generatore autonomo che alimenta la struttura, quindi può caricare il telefono e il computer e inviare il materiale raccolto durante la giornata. La sua vita oggi è molto più complicata di come viene descritta in queste poche righe.
Sami al-Ajrami nasce una cinquantina di anni fa nel campo profughi di Jabalia nel nord della Striscia di Gaza. Nel nostro immaginario il termine utilizzato per descrivere il suo luogo natìo potrebbe essere fuorviante; richiama alla mente tende bianche, alcune con una croce rossa su un lato, o altre strutture temporanee. Istituito nel 1948 dalle Nazioni Unite in seguito alla guerra di indipendenza israeliana, il campo di Jabalia era un’area vastamente urbanizzata, con una vita sociale ed economica sviluppata che ha quindi permesso al giovane Sami al-Ajrami di avere accesso a un’istruzione e, nonostante ciò che la toponomastica faccia intendere, a un luogo da considerare casa. Nell’ultimo censimento dell’Ufficio Centrale Statistico Palestinese (PCBS) del 2017, la popolazione del campo contava quasi 50.000 persone. Attaccato a metà dicembre 2023 da Israele, è ora stato evacuato ed occupato dall’esercito.
Una visuale generale per dare un’idea della distruzione del campo profughi di Jabalia in seguito al bombardamento dell’esercito israeliano. [Abdulqader Sabbah/Anadolu Agency]
All’età di 12 anni dovette imparare l’ebraico per poter comunicare con i soldati dell’esercito israeliano che pattugliavano la città. Anche la maggior parte dei notiziari in televisione erano in ebraico e per uscire dall’isolamento dovette studiare da autodidatta. Approfondisce le letture in arabo ed ebraico, comincia a criticare i dogmi culturali della sua educazione, ma anche fra gli amici esprimere certe opinioni era un rischio: “Non potevi dirti ateo in pubblico, le persone non avrebbero capito. Avresti rischiato la vita”.
A 22 anni riuscì a conciliare il desiderio di apertura e le necessità economiche della propria famiglia e si trasferì a Tel Aviv dove, con le sue competenze linguistiche, poté fare la prima conoscenza con i cittadini israeliani e trovare un’occupazione in un’impresa di costruzioni.
Nel 2004, dopo varie esperienze politiche, tornò a Gaza per lavorare in agenzie mediatiche locali, scrivendo in ebraico e inglese. Il 2007 fu l’anno dell’ascesa al potere di Hamas e l’autorità decise di impedire a giornalisti israeliani di entrare a Gaza. Al-Ajrami fu sorpreso vedendo con quanta cordialità fu accolta dal comando di Hamas la sua richiesta di poter continuare il lavoro di giornalista sul posto. “È ottimo che scrivi per gli israeliani, così potranno capire come stanno le cose qui” fu la risposta alla sua richiesta.
Fra le 30.000 persone rimaste uccise da entrambi i lati dall’inizio della guerra, 88 sono giornalisti. Sami al-Ajrami teme ogni giorno per la sua vita e per quella della sua famiglia – sua figlia già finì ferita alla mano nel 2012 dall’esplosione di un missile israeliano.
Sami al-Ajrami in un intervento da Rafah a dicembre [Photo Ansa 2023]
Al-Ajrami scrive da Deir Al Balah, nel sud della Striscia (non lontano da Khan Yunis); collabora con l’ANSA e per testate come il Berliner Zeitung, anche se si è fatto conoscere di recente per i servizi quotidiani che fornisce a La Repubblica e che spesso sono solo frammenti o informazioni trasmesse, poi elaborate con la dicitura “testo raccolto da Sami al-Ajrami” ed il nome del giornalista di La Repubblica incaricato del lavoro.
Testimonia: “Ho seguito gli sfollati dal nord al sud della Striscia, io ero sempre uno di loro?”
Un murale della giornalista araba di Al-Jazeera Shireen Abu Akleh, uccisa da un soldato israeliano nella città di Jenin in Cisgiordania, su un muro a Gaza City il 15 maggio 2022. (AP Photo/Adel Hana)
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Alberto Drago
