Nel corso della 36esima edizione del Salone del Libro di Torino sono numerose le conferenze a cui noi della redazione di The Password abbiamo avuto occasione di partecipare. Una in particolare, tenutasi venerdì 10 maggio e organizzata da Torino Social Impact, ha offerto numerosi spunti di riflessione sull’attuale lavoro giornalistico e sulle sue conseguenze nella società.
“Il ruolo del giornalismo nell’era dell’impact economy”, questo l’accattivante nome dell’evento che ha visto come ospiti Mario Calabresi, Mario Calderini, Styli Charalambous, Julie Pybus, Zoe McDonagh, Raphael Zanotti e Tina Rosemberg, i quali hanno portato preziose testimonianze e riflessioni sulle proprie esperienze con il giornalismo d’impatto. In una società in cui siamo tutti chiamati a rispondere di noi stessi davanti alle sfide sociali e ambientali, è importante considerare come il modo in cui le notizie vengono trasmesse abbia avuto nel corso degli anni un grande impatto sulla collettività. Il giornalismo d’impatto si preoccupa di analizzarne le conseguenze e di studiare le migliori modalità per contribuire al progresso sociale attraverso l’informazione.
Il prezioso intervento della giornalista americana Tina Rosemberg ha posto le basi per una riflessione profonda circa le tecniche di informazione attuali e di come queste abbiano effetti negativi sulle nostre vite. Rosemberg ha scritto per anni per il New York Times e dieci anni fa ha co-fondato insieme a David Bornstein il Solutions Journalism Network, un’organizzazione no-profit che intende diffondere appunto il “solution journalism”. Si tratta di un metodo in netto contrasto con la tendenza — purtroppo attuale — di “bombardare” il pubblico di notizie negative, che predilige invece una ricerca più approfondita dei dati, per poter giungere a un’informazione completa che, pur rappresentando la cruda realtà, mostri anche le soluzioni che possono essere attuate per risolvere determinati problemi (si pensi, ad esempio, alla crisi ambientale). Utilizzando le parole di Rosemberg, l’obiettivo sarebbe quello di “lasciare uno spiraglio di positività”.
Questo intervento ha lasciato spazio a una maggiore consapevolezza sulle conseguenze negative del giornalismo nell’era digitale. La necessità di quest’ultimo di adattarsi agli algoritmi dei social network, aggiunta a tecniche di propaganda politica, ha portato a creare notizie flash, rapide da leggere, con titoli acchiappa-click e contenuti brevi e accattivanti. La crescita esponenziale delle testate giornalistiche online porta, inoltre, a maggiore competizione a suon di post e hashtag per accaparrarsi per primi le notizie più scottanti, per non parlare della facilità con cui, tra queste, si vanno a infiltrare anche le fake news. Insomma, il giornalismo attuale sembra star attraversando una vera e propria crisi, un caos mediatico. E tutto ciò ha delle conseguenze devastanti: sopraffatti da continue notizie sconvolgenti o negative, noi cittadini ne risentiamo psicologicamente, arrivando a sviluppare una vera e propria sfiducia nel mondo. Pensiamo ad esempio al continuo “terrorismo mediatico” del 2020-2021, quando ogni giorno usciva almeno una decina di articoli e reportage sulla pandemia.
Un altro problema evidenziato nel corso della conferenza è stata l’eccessiva attenzione data alla cronaca nera in Italia: mentre un tempo non tutti gli avvenimenti minori venivano riportati sui giornali, oggi ogni singolo incidente stradale, ogni rapina, ogni pestaggio è oggetto di notizia sui social network. Questo ci porta ad avere una percezione degli ambienti in cui viviamo come estremamente pericolosi, dal momento che ogni notizia viene “gonfiata” per permetterne un’adeguata visibilità.
Di fronte a questa “crisi” della società causata dal modo di trasmettere le notizie, pare necessaria una riforma. Il solution journalism di Rosemberg sta iniziando lentamente a diffondersi anche in Italia e, nonostante la strada sia ancora lunga, l’obiettivo comune dei giornalisti è quello di riconquistare la fiducia delle persone. Occorre reinvestire sul giornalismo per garantire un ritorno a un’informazione più completa e approfondita con adeguati dati a supporto, preferendo la qualità alla quantità.
Monica Poletti

Articolo non ovvio, complimenti! Stra interessante!
I tempi stanno cambiando e bisogna capire quale sia il miglior modo per poter comunicare. L’attenzione media degli utenti cala, le notizie diventano flash, e per la gran parte delle persone interessa di più attirare i click dei lettori che di trasmettere realmente un messaggio. La vera domanda è se è possibile comunicare una notizie “complessa” con sempre meno caratteri, vista la scarsa attenzione di chi legge, oppure sia il caso di cambiare direttamente metodo comunicativo.
Le notizie negative vanno molto di più di moda, come hai detto te questo ci crea eccessivo allarmismo riguardo a realtà che sono più rare di quanto vengano invece pubblicizzate. Chi si occupa di giornalismo è un po’ schiavo dei cambiamenti del tempo e delle mode del momento. Bisogna adattarsi o no?
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Ti ringrazio molto 🙂
E in effetti è un dubbio non scontato al quale non saprei dare una risposta sicura. Da un lato direi che è necessario preferire un articolo approfondito e ben studiato rispetto a 10 articoletti brevi che ci provocano prevalentemente allarmismo e angoscia. Ma d’altronde, l’essere umano per sua natura è attirato da queste cose, per cui ci viene quasi naturale cliccare su quel titolo così accattivante e “spaventoso” e di conseguenza i giornali adottano questo metodo per potersi assicurare maggior guadagno (e come biasimarli, d’altronde dobbiamo tutti mangiare, no?)
È un bel bivio: sacrificare l’informazione completa o le visualizzazioni?
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