La (NON) riabilitazione delle carceri italiane: il 70% dei detenuti è recidivo

“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Costituzione italiana, art. 27

L’articolo della Costituzione italiana parla chiaro: le carceri servono a rieducare i detenuti. Ma è realmente questo che succede? Quanti sono i detenuti che dopo aver passato un periodo di tempo rinchiusi riescono efficacemente a reinserirsi nella società? Quanti recidivi, invece, finiscono per ritornare tra le sbarre?

Situazione carceri

Prima di trattare il processo di reinserimento, con le adeguate statistiche, è necessario descrivere l’ambiente in cui tutto ciò accade.

La situazione delle carceri è la seguente: secondo una ricerca condotta da Antigone, associazione che si occupa della tutela dei diritti nel sistema penitenziario, le problematiche delle prigioni italiane sembrerebbero essere numerose, tra cui:

  • sovraffollamento: a fronte di una capienza di 51 mila posti, a oggi i detenuti incarcerati si attestano almeno a 60 mila, con un tasso di sovraffollamento di circa il 118%. Nel 2020 l’Italia si è posizionata seconda nella classifica dei Paesi europei per il rapporto tra posti disponibili nelle prigioni e detenuti incarcerati;
  • suicidi e morti: nel corso degli anni l’Italia è stata classificata più volte dal Consiglio d’Europa tra i primi Paesi per tasso di suicidi nelle carceri. Nel 2022 se ne sono contati 85, nel 2023 circa 70. Quest’anno tra inizio gennaio e metà aprile se ne contano già una trentina, portando ad avere una media di un suicidio ogni 3 giorni e mezzo.

La non riabilitazione

Dopo le giuste premesse, si può procedere con la questione del reinserimento dei detenuti nella società: quanto realmente questo avviene?

Il lavoro in carcere, introdotto nel 1975 con finalità rieducative, si è dimostrato essere un tassello essenziale per la riabilitazione dei detenuti per diversi motivi: svolgere un mestiere permette ai condannati di apprendere competenze nuove, di ricavarci possibilmente un guadagno e di evitare cattive influenze da parte degli altri incarcerati.

Il lavoro dovrebbe quindi essere sempre assicurato al condannato per consentirgli il miglior reinserimento possibile, ma così non è. Infatti, negli anni, solo una piccola parte della popolazione carceraria ha usufruito di questa possibilità.

Secondo una ricerca commissionata dal Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) nel 2022, i carcerati che svolgevano un mestiere con un contratto collettivo nazionale erano circa 18.000. Di questi, l’84% era alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, mentre il 16% lavorava presso imprese e cooperative esterne. 

I detenuti con un impiego presso l’amministrazione guadagnavano un terzo in meno rispetto ai lavoratori liberi, pur avendo ugualmente diritto alle ferie pagate e alle assenze per malattia, oltre che ai propri contributi pensionistici e assistenziali. Chi lavorava presso le imprese esterne, invece, godeva degli stessi diritti dei lavoratori liberi. 

Quanto il lavoro incide nel reinserimento dei detenuti? Secondo un’analisi, il 2% dei carcerati che hanno avuto esperienze lavorative durante il proprio periodo di detenzione ricommette crimini, rispetto al 70% di chi invece non ha goduto di questa opportunità. 

Perciò il lavoro si dimostra essere davvero un ottimo metodo di reinserimento dei detenuti, tuttavia solamente una piccola parte ha la possibilità di goderne. Inoltre, la pandemia non ha aiutato a migliorare la situazione, in quanto ha portato alla chiusura di numerose convenzioni.

Altra problematica che influenza negativamente la riabilitazione è il rapporto tra il numero di operatori di Polizia penitenziaria e di altre figure negli istituti di pena: secondi i dati del 2020 raccolti dal Consiglio d’Europa, l’Italia si è posizionata al secondo posto nelle “statistiche internazionali di custodial staff” per percentuale di numero di agenti di polizia nelle carceri, con una presenza dell’84% rispetto al totale degli operatori. Perciò il rapporto tra incarcerati e polizia penitenziaria è di 1,8 (circa 2 detenuti ogni agente), mentre il rapporto tra detenuti e personale che si occupa del reinserimento è invece di 76 ad 1. Questo significa che il singolo addetto alla rieducazione deve occuparsi di 76 carcerati simultaneamente. 

Per non parlare della questione immigrazione: il 31% della popolazione carceraria è formata da stranieri e in alcuni istituti la loro presenza arriva a essere anche più della metà. A tal proposito, sarebbe fondamentale la presenza di personale che conosca le lingue dei detenuti e l’italiano per garantire l’intercomprensibilità.

Conclusione

Il lavoro si è dimostrato essere la chiave di volta per il raggiungimento dell’obiettivo proposto nell’articolo 27 della Costituzione italiana, ma purtroppo sono ancora pochi i carcerati che possono godere di questa opportunità. Associazioni come Antigone svolgono un ruolo essenziale nel cercare di tutelare i diritti dei detenuti e tentare di cambiarne anche la vita.

Eri a conoscenza di come il lavoro fosse così importante per il reinserimento dei detenuti? Vorresti entrare anche tu in qualche associazione del settore?

Diccelo nei commenti!

Octavio Moretto

Fonti:

antigone.it

rapportoantigone.it

openpolis.it

thepasswordunito.wordpress.com

rainews.it

cnel.it

ilsole24ore.com

ilsole24ore.com

senato.it

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