Technè: la dimensione fondamentale dell’arte

Prima di essere un’interpretazione, una lettura di simboli, un’analisi formale e contestuale, un’opera d’arte è un artefatto. Vale a dire che è un oggetto tangibile, fisico, che si può toccare e che è stato lavorato, dipinto, scolpito, a partire da un materiale inizialmente grezzo.
Esiste una performatività oggettuale, un’agency dell’oggetto stesso, che va considerata e intersecata all’agency umana, in modo da non dare spazio soltanto a una supremazia dell’umano sull’oggetto, ma considerare un’influenza reciproca e dare di nuovo dignità all’oggetto, considerato in quanto tale.

Questo discorso si può applicare anche e soprattutto al digitale, ai sistemi di dati: è in atto, infatti, una virtualizzazione eccessiva, un’estrazione e un’astrazione che rischia di creare una separazione tra noi nel mondo reale e noi stessi nel mondo virtuale. I dispositivi vengono intesi, nella maggior parte dei casi, unicamente come strumenti soggiogati alla nostra volontà, strumenti che noi adoperiamo. Il dispositivo, tuttavia, ha un effetto sul soggetto che lo utilizza: il soggetto e l’oggetto confondono i loro margini, si intersecano, influenzandosi a vicenda.
Diventa quindi fondamentale riportare l’attenzione alla materia, al processo di creazione e di realizzazione ancora prima che al prodotto, per poter analizzare e comprendere a 360° un’opera; c’è insomma una dimensione di technè, di tecnica, intesa come messa in pratica e realizzazione. In qualunque caso, il processo di creazione compiuto da un soggetto è un processo di messa in relazione, che può essere una messa in relazione con il paesaggio, con un altro soggetto, con un oggetto.

C’è un ideogramma giapponese, che indica l’essere umano, composto da due parti: nella prima parte si ritrova il significato di “persona”, mentre nella seconda quello di “spazio”, di spazio vuoto come spazio di relazione, che sia una relazione soggetto-soggetto, soggetto-oggetto o del soggetto con sé stesso. Dunque l’essere umano non viene concepito come qualcosa di intero, di completo, che si staglia imponente e sicuro e modella il mondo, ma come qualcosa che presenta dei buchi, degli spazi, che può essere influenzato e può cambiare in relazione alle cose e alle persone. Testuro Watsuji, in
Antropologia del paisaje, valorizza questo spazio vuoto, anche in relazione all’ambiente circostante: ad esempio, sostiene che, se abbiamo freddo, siamo noi stessi parte del freddo; incorporiamo cioè l’ambiente circostante.

Ad avere una dimensione embodied, incorporata, sono anche l’arte e la filosofia. L’espressione artistica non è soltanto l’espressione di un’idea, di un pensiero: è incarnazione che, oltre a realizzarsi, “realizza” il soggetto che la crea, ha un effetto di retroattività.
L’embodiment presuppone una presenzialità, un kairos, cioè un sincretismo cronotopico, tra spazio e tempo, che creano un momento giusto, necessario. Quando però c’è una diacronia, ovvero quando ci sono uno spazio e un tempo diverso dall’accadimento di un evento, c’è necessariamente fictioning. Fictioning inteso come racconto, narrazione, che include in sé una dimensione di finzione, non intesa in senso negativo, bensì considerata come mitificazione, come componente imprescindibile del processo di significazione. A questo proposito, vengono individuate tre funzioni principali del mito: “mythopoesis, mythoscience e mythotechesis” (Burrows, O’Sullivan, 2019). Prendendo in considerazione la prima delle tre, “is proposed as productive of worlds, people and communities to come, often drawing upon residual and emergent cultures” (ibidem:1). Si tratta di creare, anzi di performare dei mondi; tant’è che la mythopoesis è connessa all’idea di performance. Nella mythopoesis c’è la presenza del passato, anche dei miti passati, che però sono interconnessi con il presente e orientati al futuro, in modo tale che “certain aspects of the past can be mobilised against the present” (ibidem:20).
È in questo modo che l’arte si mescola alla realtà, non creando nuovi mondi, ma un senso differente, la possibilità di leggere le cose in maniera diversa, intersecando realtà e arte, realtà e fictioning, e rivolgendosi anche ai lettori futuri, configurandosi come un’enunciazione collettiva. In questo modo, “[…] fiction has traction on reality – or crosses over to life”.

Laura Marchese

Bibliografia:

Burrows D. e S. O’Sullivan (2019) Fictioning. The Myth–Functions of Contemporary Art and Philosophy, Edimburgh University Press, Edimburgh

Watsuji T. (2016), Antropologìa del paisaje, Ediciones Sígueme S.A., Salamanca

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