Adolescence è – meritatamente – la miniserie più vista (si contano ben 66,3 milioni di visualizzazioni su Netflix) e chiacchierata del momento. Nata dalle menti di Jack Thorne e Stephen Graham e diretta da Philip Barantini, nel corso di 4 episodi racconta la storia di Jamie (Owen Cooper), tredicenne dello Yorkshire accusato dell’omicidio della sua compagna di classe, Katie.
Guardando Adolescence si fatica a credere che non sia tratta da una storia vera. Infatti, ogni elemento, dalla regia alla sceneggiatura, dai temi trattati alle interpretazioni dei protagonisti, è curato magistralmente, rendendo difficile per lo spettatore non farsi coinvolgere (anche emotivamente) da un caso a dir poco brutale. Senza dubbio, coglie nel segno la scelta della regia di usare il piano sequenza (una singola, lunghissima scena senza tagli): allo spettatore non viene lasciata tregua, non ci sono “pause” per pensare. Ci si trova quasi “costretti” a immedesimarsi, minuto per minuto, nelle esperienze e nelle emozioni dei personaggi.
Il racconto si apre con la polizia che sfonda la porta di casa della famiglia Miller, arrestando Jamie con l’accusa di omicidio. Come un filo rosso, l’incredulità è il sentimento che percorre il primo episodio: i genitori non hanno dubbi che si tratti di un errore, la sorella Lisa piange terrorizzata e lo stesso Jamie si fa la pipì addosso dallo spavento. L’episodio procede con l’interrogatorio guidato dall’ispettore Bascombe, durante il quale il padre del protagonista continua a credere che il figlio sia innocente, rassicurato dalla convinzione mostrata da Jamie stesso. In fondo, ci crediamo anche noi: ci si aspetta vi sia qualcosa dietro, come nei migliori thriller; Jamie è stato incastrato? D’altronde nelle telecamere di sorveglianza si vede la sua figura solo di spalle, potrebbe non essere lui. Oppure il padre potrebbe nascondere qualcosa?
I dubbi proseguono nel secondo episodio, incentrato sull’indagine dei due poliziotti nella scuola di Jamie. A un certo punto, un’affermazione, apparentemente di poco conto, sembra spezzare l’illusione che questa sia l’ennesima storia a sfondo giallo. Quando l’ispettore nota la collega incupita, le domanda cosa ci sia che non va, ottenendo in risposta una cruda verità:
“Il colpevole finisce ogni volta in prima linea. Un uomo stupra una donna. Ecco… noi abbiamo analizzato solo Jamie per studiare questo caso. […] Katie (la vittima, ndr.) non è importante, Jamie sì. Tutti ricorderanno Jamie, ma nessuno ricorderà lei. È questo che mi dà fastidio. Che mi fa arrabbiare.”
Ed ecco lo strappo nel cielo di carta: in realtà, il caso è già concluso con l’interrogatorio del primo episodio, ma noi abbiamo dimenticato Katie e siamo rimasti ancorati a Jamie, desiderosi di capire se o perché l’abbia fatto e in che modo la famiglia o gli amici siano coinvolti nel femminicidio. Così facendo, ci spostiamo dalla parte di coloro che tendiamo sempre a criticare: quelli che sostengono la presunzione d’innocenza dell’imputato.
I temi scoperchiati da questa serie sono numerosi: dalla misoginia alla mascolinità tossica, dal cyberbullismo al disagio adolescenziale. Nel corso della serie l’apparente normalità della vita del protagonista viene lentamente ridotta a brandelli. Il tredicenne è infatti autore di commenti misogini e offensivi sotto le foto di modelle su Instagram, ma al tempo stesso si scopre essere vittima di cyberbullismo: Katie lo ha etichettato pubblicamente come “Incel” (involuntary celibate, traducibile in “celibe non per scelta”), ossia non desiderabile dalle donne, portando Jamie ad autoconvincersene.
Gli Incel sono membri di una subcultura online costituita da uomini che credono di essere esclusi da relazioni romantiche e sessuali, non per proprie carenze, ma a causa delle donne, considerate crudeli e superficiali. Sulla stessa lunghezza d’onda, viene citata la teoria del 80%-20%, secondo cui l’80% delle donne sono attratte dal 20% degli uomini, ossia da quelli più belli e prestanti, escludendo tutti gli altri. Riaffiora, inoltre, il concetto della “manosfera”: si tratta di tutti i siti, i blog, i forum, le associazioni e i movimenti che coltivano idee riguardanti mascolinità, misoginia e opposizione al femminismo.
Adolescence è una serie che ti obbliga a guardare oltre le solite dinamiche dei thriller, invitandoti a una profonda riflessione sulla pura banalità del male: gli uomini che odiano le donne spesso non sembrano tali e non sempre hanno grandi moventi alle spalle, se non una semplice frustrazione.
L’impossibilità di redenzione e il fallimento dei genitori chiude il difficile episodio 4:
“Credo non sia sbagliato se ora ammettessimo che avremmo dovuto fare qualcosa. Credo che non sia così strano pensare questo.”
Non ci sono colpi di scena, nessuna verità nascosta: solo una cruda realtà difficile da accettare, accompagnata da una colpa difficile da attribuire. Jamie non rispecchia il tipico profilo di un omicida, in primo luogo perché “è solo un ragazzino” e in secondo luogo perché non desta sospetti: è brillante, studioso, simpatico, ha amici, non ha vissuto particolari traumi, è legato alla sua famiglia. E allora, questa serie lascia lo spettatore con l’amaro in bocca e con delle grandi domande senza risposta: dov’è la falla? Cos’è andato storto? Ed è proprio questo che la serie ti scaraventa in faccia, come una secchiata d’acqua gelida: certe ideologie riescono a penetrare a fondo, sradicando qualunque barriera di buoni esempi offerti. A rivelarsi un assassino potrebbe essere chiunque: un nostro fratello, un nostro amico, nostro figlio.
Maria Pia Bisceglia
Monica Poletti
Fonti:
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