The Password ha avuto l’opportunità di intervistare Giulia Arduino, autrice del libro Che ne sarà di noi? Ricordi di partigiani piemontesi a ottant’anni dalla Liberazione, che verrà presentato giovedì 6 novembre a Torino presso la Cascina Roccafranca. Arduino è una ricercatrice e giornalista storica, avente come area di studio la public history, e collabora con numerose realtà, come l’Istituto Nazionale Ferruccio Parri e il Museo Diffuso di Torino. È inoltre autrice di un podcast intitolato Qui si fa l’Italia, curato da Lorenzo Pregliasco e Lorenzo Baravalle, e collabora con Gad Lerner e Laura Gnocchi, due giornalisti che curano il portale Noi, partigiani – Memoriale della Resistenza italiana, in cui vengono pubblicate le interviste integrali di tutti i partigiani ancora vivi in Italia. Proprio a partire a partire da questo progetto è nata l’idea per il suo libro. Nel 2024, dopo un’intervista per la rivista Torino Storia, Giuseppe Pastore, partigiano la cui toccante testimonianza è presente nel libro, propose ad Arduino di riunire tutti i partigiani presenti in Piemonte e organizzare una grande cena. Inizialmente, Arduino ritenne il suggerimento di difficile attuazione, ma nel mese di agosto 2024 ripensò alle sue parole, che le furono d’ispirazione per avviare il suo progetto di incontri con i partigiani ancora vivi in Piemonte, avente come esito la realizzazione di Che ne sarà di noi? Ricordi di partigiani piemontesi a ottant’anni dalla Liberazione, pubblicato nell’aprile 2024, mese della Festa della Liberazione.
La redazione ringrazia Giulia Arduino per il tempo che ci ha dedicato e ritiene che la sua opera sia fondamentale per riflettere sugli atti di coraggio e sui sacrifici di ragazzi e ragazze che hanno agito in nome della libertà – la loro e quella delle generazioni successive.
Come si è svolto il tuo lavoro di ricerca?
Innanzitutto, ho identificato i partigiani e, nell’andare a intervistarli nelle loro case, spesso sono stata accolta come se fossi una nipote. È stato un lavoro lungo, perché mi ha richiesto di viaggiare per tutta la regione, ed è stata una corsa contro il tempo – alcuni di loro sono morti prima che potessi intervistarli. La peculiarità del libro è che per ogni provincia del Piemonte c’è un’intervista dedicata a un partigiano. Il mio obiettivo era delineare una storia che non fosse solo torinese, in quanto costituita da numerose microstorie, quelle di tutte queste persone che hanno permesso al popolo italiano del 2025 – e a quello del 1946 – di essere libero. Noi dobbiamo la nostra libertà a loro, persone nate durante il fascismo che non sapevano quale fosse il significato del concetto di democrazia e, tuttavia, hanno combattuto affinché vivessimo in un’Italia libera.
A cosa devi la scelta di questo titolo dal taglio interrogativo?
Il titolo deriva senza dubbio dalla testimonianza di Pietro Reverdito, partigiano della provincia di Alessandria, che per quarant’anni fu insegnante delle scuole elementari – mestiere da lui considerato il migliore del mondo. Al termine dell’intervista espresse un dubbio: “Che ne sarà di noi partigiani tra qualche anno?”. Questa domanda mi ha accompagnata ed è stata lo stimolo per la quarta di copertina. Se nessuno raccoglie le testimonianze dei partigiani ancora vivi, le loro figure e le loro esperienze scompariranno nell’oblio. L’obiettivo è quindi rendere noti i loro racconti e non scordare mai quello che hanno fatto per noi.
Ritieni che i giovani saranno in grado di mantenere sempre viva la memoria della Resistenza? Come?
Sono convinta di sì. Dall’uscita del libro ho notato che molti ragazzi sono soddisfatti del fatto che qualcuno abbia scritto un’opera in grado di mantenere viva la memoria dei giovani di quel tempo. Io ho 26 anni e all’epoca questi partigiani avevano poco meno della mia età. Alcuni morivano a Le Nuove, come Alfonso Gindro, che prima di essere condannato a morte nella sua cella scrisse una frase dedicata alla madre – contenuta nel libro, subito dopo l’introduzione – in cui annota di aver dato la vita per un ideale di libertà.
Gli incontri con i partigiani sono stati carichi di emozione? Ti sei commossa? Qual è stato l’incontro più significativo?
Quello con Gustavo Ottolenghi, un partigiano ebreo che, in seguito al trasferimento con la famiglia da Torino a Murisengo, nel Monferrato, a causa delle leggi razziali dovette separarsi dal padre e dalla madre, conservando la speranza di rivedersi nel caso di vittoria. Gustavo raccontò di essere tornato a Torino il 25 aprile, quando la città non era ancora libera (sarebbe stata liberata il 28), e di essersi recato per tre giorni consecutivi al monumento al Duca d’Aosta, sito in Piazza Castello, dove lui e i genitori avevano stabilito che si sarebbero ricongiunti alla fine della guerra. Solo al terzo giorno vide finalmente avvicinarsi una figura nota, quella del padre, e dopo 20 mesi la loro famiglia poté riunirsi. Raccontando questo episodio, Gustavo aveva le lacrime agli occhi; io pure, quando leggo una parte della sua storia durante le presentazioni, non riesco a non commuovermi.
Renato Giara, pur avendo assistito all’uccisione di un ragazzino innocente da parte dei nazifascisti, quando poche ore prima della Liberazione lui e altri partigiani catturarono circa 40 tedeschi e un suo compagno iniziò a malmenarli, gli ordinò di smettere. Rifiutò la vendetta, perché i nemici erano esseri umani, proprio come loro. Cosa pensi della sua lucidità e capacità di non disumanizzare il nemico?
Applicare violenza alla violenza non porta a nulla: bisogna affidarsi alla giustizia; non si può rispondere uccidendo. Molti di loro lo hanno detto chiaramente. È vero, diversi partigiani si vendicarono, ma quella non fu giustizia. Renzo Balbo racconta che i fascisti uccisero suo zio, il padre del cugino Piero Balbo – uno dei più importanti partigiani delle Langhe, citato anche da Beppe Fenoglio ne Il partigiano Johnny. Per vendicarsi, Piero Balbo fece uccidere una spia fascista. In quegli anni accadevano cose terribili, eppure nessuno degli intervistati scelse la via della violenza, nemmeno Giuseppe Pastore, che oggi porta un busto perché allora, quando si trovava nel carcere Le Nuove, gli ruppero vertebre e costole.
Cosa pensi del fatto che il 25 aprile sia diventato progressivamente una data divisiva? Leggendo le testimonianze dei partigiani, emerge quanto in realtà alla base delle loro azioni – nella maggior parte dei casi – non ci fossero degli ideali partitici, bensì il desiderio della libertà.
La Resistenza è stata un fenomeno assai diverso da quello che viene dipinto spesso dai media ed era formato da un’ampia varietà di gruppi, come il Partito d’Azione – che non era comunista –, i monarchici, i liberali… Giovanni Isaia, partigiano che fece parte della Brigata Garibaldi, mi ha raccontato che non arrivavano mai gli aiuti dagli angloamericani, perché sapevano che gli uomini e le donne che facevano parte di tale brigata erano comunisti. Essere antifascisti non significa essere di sinistra, ma dovrebbe essere un dovere civile e morale. Con ciò non intendo negare le eventuali azioni negative dei partigiani, perché come non tutti i fascisti furono violenti così non tutti i partigiani furono mansueti; però il fine ultimo delle loro azioni era positivo. Non c’era libertà di parola, di stampa, di pensiero, di opinione. La libertà non esisteva e non potevi professare le tue idee, trasmettere i tuoi valori ai figli, perché il rischio era che essi andassero a scuola e lo dicessero ai compagni o alle maestre. Bisognava fare attenzione alle parole usate e non ci si poteva fidare di nessuno.
A tal proposito, tra le testimonianze mi piace sempre leggere a fine presentazione quella di Renato Patera, il quale fu bocciato a scuola perché la madre non aveva comprato la tessera del partito, che costava 2 lire, una somma di denaro elevata all’epoca: le divise dei Giovani Balilla e delle Giovani Italiane erano a carico delle famiglie. La madre di Renato non solo non aveva i mezzi, ma decise di non acquistare le divise come forma di opposizione nei confronti del regime fascista. Quando Renato mi raccontò l’episodio della sua bocciatura in terza elementare aveva gli occhi lucidi, proprio come se l’evento fosse accaduto non 90 prima, bensì di recente. Da quel momento Renato iniziò a odiare tutto ciò che riguardasse il fascismo e ad avere fame di libertà.
Vanessa Musso
