Erano le 22.39 del 9 ottobre 1963 quando improvvisamente mancò la luce nella valle del Vajont e sui versanti delle due montagne vicine, il Toc e il Salta, senza che rimanesse neanche una finestra illuminata. Una catastrofe stava per spazzare via paesi pieni di vite, come Erto, Casso, Longarone, Codissago e Castellavazzo, portando alla morte 1910 persone. A quell’ora un’enorme frana di 260 milioni di m3 di detriti si era definitivamente staccata dal monte Toc e riversata nell’enorme bacino artificiale che lambiva i versanti della valle, sollevando un’onda di oltre 250 milioni di m3. Si sentì un gran boato e in 4 minuti, alla velocità di 80 km\h, la forza di 30 milioni di m3 d’acqua passò oltre la diga e raggiunse la Valle del Piave. Ma se andrete a cercare questo fatto nella maggior parte dei libri di storia scolastici non troverete nulla.
Nel ‘93 Paolini raccontò questa storia in uno spettacolo che Il 9 ottobre 1997 venne trasmesso in prima serata su Rai Due: l’orazione civile “Il racconto del Vajont”. Con la voce e il corpo Paolini evocò il fantasma di quella sera e fece rivivere i fatti che avevano condotto a questo disastro evitabile. Il Racconto del Vajont fece record di ascolti: tre milioni e mezzo di spettatori. Ebbe l’indiscusso merito di stimolare il ricordo di una vicenda che rischiava di continuare a restare oscurata dal silenzio di politica e media.
Per il grande pubblico televisivo costituì anche una sorta di epifania del teatro di narrazione. La sperimentazione teatrale in questa corrente era già stata avviata da Dario Fo, che aveva ricevuto in quello stesso anno il Premio Nobel, a vent’anni di distanza da quando il 22 aprile del 1977 era stato messo in onda il “Mistero Buffo”, una serie di monologhi riferibili alla Bibbia e ai Vangeli apocrifi, recitati in una lingua, il grammelot, che è il risultato della contaminazione di varie lingue e dialetti.
In due ore e mezza Paolini ripercorse l’intera storia della diga. Dall’oscurità della notte, in un teatro costruito nel versante riempito dalla frana, riemersero i fatti. Nell’immaginazione degli spettatori si preparò e realizzò di nuovo questa catastrofe che vide l’uomo come unico responsabile. In ogni ascoltatore, di fronte a quello spettacolo, crebbe nell’animo una pungente amarezza, e chiunque fu schiacciato dall’ombra della disperazione, come se stesse assistendo ad un’antica tragedia greca.
All’alba del mattino seguente la diga era ancora in piedi, intatta. Per l’enormità e la complessità dell’accaduto la vicenda del Vajont fu dapprima interpretata dalla stampa nazionale come un evento di catastrofe naturale.
Giorgio Bocca, giunto sul luogo la mattina dell’11 ottobre scriverà su Il giorno:
«Ecco la valle della sciagura: fango, silenzio e solitudine. Non c’è più niente da fare e da dire. Cinque paesi, migliaia di persone. Ieri c’erano, oggi sono terra. E nessuno ha colpa, nessuno poteva prevedere. Tutto fatto dalla natura, che non è buona, non è cattiva, ma indifferente. Ci vogliono queste sciagure per capirlo».
Dino Buzzati invece scriverà sul Corriere della Sera:
«Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il sasso era grande come una montagna, il bicchiere era alto centinaia di metri, e sulla tovaglia stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. E non è che si sia rotto il bicchiere, non si può dare della bestia a chi l’ha costruito, perché quel bicchiere era fatto bene, a regola d’arte, testimonianza del coraggio e della tenacia umani. La diga del Vajont era ed è un capolavoro anche dal punto di vista estetico».
Ma a denunciare il rischio di una frana ci stava già da anni una sola giornalista, Tina Merlin. Lo stesso giorno scrisse su L’Unità:
«Sto scrivendo queste righe col cuore stretto dai rimorsi per non aver fatto di più per indurre il popolo di queste terre a ribellarsi alla minaccia mortale che ora è diventata una tragica realtà. Oggi tuttavia non si può soltanto piangere. È tempo di imparare qualcosa».
Infatti nessuna autorità di competenza preposta ai controlli fece qualcosa per bloccare i lavori. L’impresa che si occupava della costruzione della diga non spedì mai agli organi di controllo le relazioni dove le problematiche trovavano riscontro. Agirono nel loro completo benestare e l’omertà proseguì anche dopo il terribile accaduto, tanto che il libro che voleva pubblicare riguardo questa vicenda, intitolato Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso Vajont, trovò un editore solo molti anni dopo.
La diga fu progettata dalla SADE (Società adriatica dell’elettricità), fondata nel 1905 da Giuseppe Volpi, e fu uno dei più importanti gruppi industriali privati per la produzione dell’energia elettrica.
Nel 1922 Volpi era ministro delle finanze nel governo fascista. Promosse una legge che finanziava fino al 50% le imprese che costruivano nuovi impianti idroelettrici a sostegno della politica autarchica del regime anche in campo energetico. In questo modo la SADE investì nella costruzione di 7 impianti idroelettrici lungo il Piave, coprendo entro l’anno 1930, 1/15 del fabbisogno energetico nazionale. Divenne necessario costruire un serbatoio in cui potessero defluire le acque di queste centrali, e la gola del Vajont, una delle più profonde di tutte le Alpi, fu considerata un luogo ideale.
Nel 1929 fu quindi effettuata dal geologo Giorgio Del Piaz la prima perizia geologica che, per quanto approssimativa a causa delle scarse tecnologie dell’epoca, fu sufficiente perché l’ingegner Carlo Semenza realizzasse il primo progetto della diga.
Il progetto “Grande Vajont”, una diga alta 200 m, fu sottoposto alla commissione dei lavori pubblici nel 1940, ma per ottenere una approvazione, a causa dello scoppio della Seconda Guerra mondiale, sarebbe stato necessario aspettare fino al 13 ottobre del 1943, quando fu approvato con frode alla presenza di 13 commissari su 46. Rimase comunque tutto in sospeso, finché nel 1957 Il Consiglio maggiore dei lavori pubblici approvò nuovamente il progetto della diga. 370 ettari della valle sarebbero stati invasi dal suo bacino e quindi iniziarono gli espropri e in inverno si aprì il grande cantiere.
Ben presto furono notate delle fessurazioni presso i punti di ancoraggio della diga, ma non destarono eccessiva preoccupazione.
La Commissione di collaudo ministeriale, creata appositamente nel 1958 con compiti di controllo, avrebbe potuto fermare i lavori, ma non lo fece. E non successe neanche quando nel 1959 una frana provocò un’ondata nel bacino della vicina diga di Pontesei, avvenimento che invece allarmò gli abitanti della zona, a cui diede voce la giornalista Merlin. Al contrario fu approvata un’altra variante: l’altezza della diga da 200 m passò a 261.60 m. Quella del Vajont sarebbe stata la diga a botte a doppia curvatura più grande del mondo.
Il serbatoio ancora più capiente rese quindi necessari ulteriori espropri. I malumori presso la popolazione della zona aumentarono. Con la fondazione del Consorzio per la rinascita della Valle ertana, 136 capifamiglia giurarono di difendere la terra e la valle. Merlin, in loro sostegno, pubblicò su l‘Unità un articolo dal titolo La SADE spadroneggia ma i montanari si difendono. La SADE fece denunciare Merlin dalla polizia di Erto per notizie false atte a turbare l’ordine pubblico.
Venne invitato il geologo austriaco Leopoldo Muller a fare delle perizie geologiche e individuò un’antica frana sul monte Toc, con un fronte di 2 km e che si sviluppava verticalmente per 1000 mila metri. L’ingegnere Semenza, che era intimorito dai risultati, promosse altre indagini condotte dal figlio Edoardo Semenza e Franco Giudici, ma diedero gli stessi risultati. Il buonsenso avrebbe dovuto consigliare di non erigere una diga dove era già caduta una frana, ma in quell’anno questa era ormai praticamente terminata. Nel 1959 fu formata la Commissione di collaudo a cui fu consegnata la perizia del 1929 e che approvò il cantiere e la diga.
Prese il via la prima prova di invaso e il bacino fu riempito di acqua fino a quota 600 metri sul livello del mare, ma invece di terminare il test togliendo l’acqua e controllando la tenuta della diga, accorciano i tempi e continuano a riempirla, fino a 640 metri sul livello del mare. A questo punto iniziarono a essere avvertiti rumori sordi dalle profondità della montagna e a essere osservate macchie giallastre nel bacino artificiale finché, il 4 novembre 1960, avvenne la prima frana del Vajont dal monte Toc. Era incominciato l’inesorabile processo di sgretolamento dello zoccolo duro che sosteneva da millenni la frana del Toc, e ne divenne visibile il segno di slittamento dal perimetro di 3 metri, detto in seguito M di Muller per via della sua forma a M.
Tina Merlin, denunciata mesi prima per diffamazione, fu scagionata da ogni accusa. Nel 1961 il presidente della provincia di Belluno era Da Borso. Egli intuì che la situazione fosse ambigua e rischiosa. Cercò di esercitare pressioni ma senza risultati. In seguito avrebbe detto: “Agire contro la SADE è difficile, è come uno stato nello Stato”.
Quell’inverno il ghiaccio tenne ferma la frana. Fu ideato e realizzato il progetto delle gallerie di sorpasso per tenere insieme le due braccia del bacino in caso di frana. Uscì un articolo sull’Unità di Tina Merlin dal titolo Un’enorme massa di 50 milioni di m3 minaccia la vita e gli averi degli abitanti di Erto.
Nonostante tutto, le acque del bacino raggiunsero quota 680 m. Sempre nel 1961 morì Carlo Semenza e assunse il controllo del progetto l’ingegner Alberico Biadene.
Nel 1962 continuarono il piano di invasamento e ogni volta che si era mossa l’acqua si verificavano scosse di terremoto. In ottobre il professore Augusto Ghetti ottenne l’incarico di effettuare uno studio attraverso un modello idraulico di 40 m per simulare una frana nel serbatoio. Questo test non diede risultati realistici: la ghiaia usata non era conforme alla realtà, infatti sarebbe stato più opportuno usare lastre di calcestruzzo; inoltre, la frana fu stimata di 200 milioni m3 di roccia fatti cadere in due tempi differenti, mentre nella realtà sarebbero caduti in contemporanea. Il professore concluse erroneamente che la quota di sicurezza fosse di 700 m sul livello del mare e che con l’acqua più alta di così non sarebbe stato possibile governare la frana. Nel dicembre dello stesso anno una legge istituì l’Enel (ente nazionale energia elettrica) e fu concordata la seconda prova di invaso dalla commissione.
Il 27 luglio 1963, in seguito alla nazionalizzazione delle imprese elettrice, l’Enel prese in consegna l’impianto come funzionante (mancava la terza prova di invaso). La diga del Vajont e il suo bacino da ora sarebbero stati proprietà dello Stato.
Con la terza prova di invaso si stabilì di raggiungere i metri 715 sul livello del mare. Non sarebbero mai stati raggiunti. A fine agosto mancavano 3 metri al collaudo, ma un terremoto di 7 gradi scala Mercalli, seguito a settembre da altre frequenti scosse in tutta la valle, rese innegabile che la montagna si stesse sbriciolando. Se avessero tolto l’acqua troppo in fretta sarebbe caduta subito. A questo punto erano due anni che la commissioni di collaudo non veniva più a fare un sopralluogo al Vajont. Senza consultare alcun geologo, Biadene diede il compito di bloccare il livello dell’acqua. Il 26 settembre si iniziò a togliere l’acqua al ritmo di 70 cm al giorno. La montagna accelerò il suo sgretolamento e ci furono i primi sgomberi nelle località prossime alla diga.
Ancora oggi «Ci sono i segni sulla bocca della gola di fino a dove l’acqua è arrivata, come se le ere geologiche non fossero passate mai, come se l’azione delle acque del 9 ottobre del ’63 avessero rifatto la genesi del mondo in questa gola. Siamo all’anno zero in questo posto»
afferma Paolini nel momento di massimo climax dello spettacolo. La sera del 9 ottobre la quota dell’acqua della diga raggiunse il livello di 698 m sul livello del mare. La montagna franò generando un’onda colossale che oltrepassò la diga:
«L’acqua forma un lago in corsa alto 170 m. Dietro ha la diga ma davanti ha Longarone, al centro del mirino. A Longarone hanno sentito il colpo.
-Temporale!
Ed è andata via la luce.
– La partita! Che rabbia!
Non vedi la partita e vai fuori con la sigaretta accesa. Vedi che trema, trema, la vallata. Mezzo paese è alla luce, ma noi no. È intanto sopra la gola del Vajont si vedono dei lampi.
– È un temporale?
– No, è un corto circuito.
– È un temporale?
Tremano le pareti della gola.
– È un temporale, senti che tuoni!
E intanto arriva il vento.
È un temporale d’ottobre che cambia il tempo, succede no? Che arriva questo vento umido, schifoso… Strano vento, che porta fuori una specie di acqua polverosa, bagnata, che cava i vestiti, che cava il respiro. Un vento che però non è come al solito, che arriva, fa un colpo e smette, poi ricomincia. Questo vento come inizia non finisce più. Spinge e aumenta, spinge e aumenta.
– Non è vento questo! Porta un odore… neanche avessero scoperchiato tombe!
-Ma che cos’è?
È una cantina maledetta, è un pistone marcio che spinge avanti l’acqua. Questo è qualcosa che… LA DIGA!
4 minuti. Da quando piomba la montagna a quando arriva l’acqua a Longarone. Il muro d’acqua impiega un minuto e 20 per percorrere la gola a 80 Km\h.
4 minuti per decidere come vivere o come morire.
E intanto tremano le pareti, trema il terreno. E intanto si annebbia la vista e arriva questo vento che fa spaccare i coppi, fa spaccare i rami. E arriva questo rumore, come un treno che arriva, ma dovunque ti sposti sei ancora sulle rotaie».
Questa vicenda ci insegna che, nonostante sia vero che la Terra può essere modificata dall’azione umana, è necessario agire con la consapevolezza che il sistema tecnologico umano è un sottosistema di quello naturale-terrestre: può modificarlo in modo durevole solo obbedendo ad alcune leggi naturali che non può stabilire a suo piacimento.
Nelle trasformazioni che esercitiamo su di esso è necessario non tenere solo conto dei benefici economici, ma anche della sostenibilità ambientale e tecnica, a vantaggio dell’intera collettività.
L’Italia degli anni Sessanta era politicamente equivoca. Come dice Paolini ad un certo punto dello spettacolo, in questa vicenda si ha avuto a che fare con «Poteri all’interno dello Stato al di sopra dello Stato e potenzialmente assassini».
A portare a questa tragedia umana non è stata solo la miopia dovuta all’amore per il profitto, ma anche l’inefficienza degli organi dello Stato corrotti e la difesa da parte dello Stato di interessi particolari.
Seguire la legge del profitto a ogni costo, ignorare i dati di realtà al costo di abbandonarsi a una prospettiva negazionista, di ceco ottimismo, significa solo bendarsi gli occhi davanti a un precipizio. Cosa inutile, perché si cadrà comunque. Gli umani saranno sempre inestricabilmente legati al mondo naturale e le catastrofi spesso succedono quando gli uomini ne sfidano le forze colossali pensando di vincerle. È questa l’hybris del mondo moderno per cui potremmo essere puniti.
Milena Toselli
Bibliografia:
– Marco Paolini, l’orazione civile “Il racconto del Vajont”
https://youtu.be/ULm8T8ySs1A?si=2E0ly-OpKWFvhnOC
https://youtu.be/bOptzmhMn0w?si=Ma1ncyKpyob0JIx0

senbra una tragedia lontana eppure si ricorda bene e la si collega ad altre disgrazie evitabili, se mai si imparasse che i mancati controlli e la legge del profitto causano di certo vittime. Non si sa quando ma prima o poi succede (vedi ponte Morandi) Nonostante ciò non si fa nulla oltre lo stretto necessario per salvare facce di tolla che negano l’evidenza. I morti si ricordano per circostanza non per esempio atto a migliorare le cose, è questa la rabbia più grande
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