Edvard Munch: un grido interiore di memoria e di ricordi.

Dopo dieci anni dall’ultima grande mostra in Italia delle opere della collezione del Munchmuseet, dedicato a Edvard Munch, attualmente al Palazzo Reale di Milano si tiene l’esposizione Il grido interiore, realizzata in collaborazione con Artemisia, che mette in mostra numerose opere della carriera dell’artista norvegese.

La capacità di comunicare emozioni e sentimenti attraverso i suoi lavori posiziona Munch tra i maestri indiscussi dell’arte del secolo scorso. La sua esplorazione artistica della percezione visiva e il continuo questionare l’oggettività dell’immagine sensoriale (tema centrale delle prime avanguardie) si intersecano con le idee maturate nei campi dell’allora nascente psicologia e dell’ottica sperimentale.
Munch è sempre stato sensibile a come la condizione umana sia influenzata dal vissuto personale e acquisti intensità passando per la memoria. Come scrisse nel 1889-1890, in quello che sarebbe diventato poi il Manifesto di St. Cloud, secondo lui: “[…] non ci dovrebbero più essere dipinti di interni, con gente che legge e donne che lavorano a maglia. Al loro posto ci deve essere gente che respira, sente, soffre e ama”.

La vita “leggendaria” di questa icona moderna ha contribuito all’invenzione anche del suo mito: emarginazione sociale, ritiro e ricovero psichiatrico hanno segnato la sua vita, a tratti influenzando, a tratti oscurando il pensiero artistico fondativo della sua carriera.
Dal 1891 al 1895 frequenta il circolo dei Bohémiens di Christiania che ruota attorno allo scrittore Hans Jæger, molto amato da Munch. Questa esperienza lo colpisce al punto che la porterà avanti nel tempo, cercando anche in Germania una compagnia di scrittori più che di pittori. Durante gli anni ’90 del XIX secolo difatti vive a Berlino, dove entra a far parte di una stretta comunità di scrittori, scienziati e libertari che studiano la teoria psicologica contemporanea e le espressioni dell’inconscio. È da qui che Munch matura l’idea per cui  la mente individuale, le visioni interiori e il recupero cosciente dei ricordi danno forma alla percezione diretta della realtà, fino a sostituirla.
Presto inizia a coltivare la passione per la scrittura unita al disegno: si contano 200 taccuini sull’arte conservati ad Oslo, contenenti più di 4.000 disegni.
La sua è un’opera d’insieme ideata dall’accostamento parola-immagine sin dal suo nascere, uno stile che verrà anche ripreso dalle successive avanguardie.  

I soggetti prediletti di Munch sono le persone che avanzano per le strade di Oslo, come lo erano state precedentemente le figure festanti degli impressionisti. La differenza è che all’edonistica joie de vivre parigina prende spazio l’austerità e la tragicità della vita (la stessa che permea la letteratura contemporanea scandinava, come quella di Strindberg). Alle passeggiate e alle colazioni, ai balli e alle feste notturne rappresentati dagli impressionisti, si contrappongono le persone che si emozionano, soffrono e reagiscono al mondo. Tra le ombre della condizione umana Munch indaga gelosia, angoscia, disperazione, amore, morte; tutti temi che ricorrono anche nella composizione grafica.
E, oltre che la vita, anche il “vivere coi morti” è un tema ricorrente, probabilmente e parzialmente dovuto alla perdita della madre a causa della tubercolosi, quando Edvard aveva appena cinque anni. A seguito di quel dramma, la zia Karen (Karen Bjolstad) si trasferì a casa della famiglia per prendersi cura dei cinque figli, diventando una delle più fervidi sostenitrici di Munch per tutta la sua vita e portando avanti una corrispondenza con il nipote durante i suoi viaggi. Nei suoi scritti questa esperienza ricorre; Munch riflette sui cicli della vita, della morte e della rigenerazione: in natura i corpi si decompongono e si trasformano in nuove forme di vita e le energie trasformano la materia. Una consonanza di dolori vicini e lontani, guardati dal di fuori come spettatori e invece come personaggi da dentro il quadro.
Un altro evento che lega Munch al tema della morte è la perdita della sorella Sophie, scomparsa qualche anno dopo la madre, e rappresentata in Morte nella stanza della malata (1896). Il tema dell’infante deceduto è piuttosto comune tra gli artisti della Norvegia di quel periodo, come anche Christian Krohg e H. Heyerdahl. Il concetto di vivere per Munch quindi racchiude anche l’interfacciarsi con la morte, con la malattia, col ricordo e con la sofferenza.

Gli spazi dipinti da Munch permettono di calarsi in ciascun dramma, grazie alla psicologia dei personaggi: sprofondamenti e affioramenti, unioni simbiotiche di coppie e separazioni, perché l’amore è un sentimento tragico di madri austere, ma anche di coppie di amanti che si baciano ai giardini della città.

Greta Sberna

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  1. Avatar di Paola Stella Paola Stella ha detto:

    🎀 Bella recensione ~ Munch mantenne la salute mentale grazie alla pittura ~ Diceva “Sto morendo da quando sono nato” ~ I suoi dipinti sono racconti di drammi profondi. .

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