Suicidi al Carcere Lorusso e Cutugno: perché bisogna parlare di carcere?

L’11 agosto scorso, due donne, una di quarantatré anni e l’altra di soli ventotto, si sono tolte la vita nel Carcere Lorusso e Cutugno di Torino a poche ore di distanza l’una dall’altra. Questi tragici eventi hanno certamente lasciato un forte sgomento iniziale, ma nel giro di pochi giorni sono spariti dalle principali pagine dei giornali, facendoli cadere, come avviene per ogni suicido all’interno di una struttura carceraria, in un oblio assoluto. Inoltre, essi sono spesso accompagnati da una sottovalutazione, da parte delle autorità competenti, delle condizioni di difficoltà e di pericolo, sottovalutazione che fa ritardare i tempi di intervento.

La storia di Susan John

Ciò è avvenuto anche per il caso di Susan John, la detenuta quarantatreenne che ha perso la vita l’11 agosto. La donna, affetta da disturbi psichici e per questo posta in una sessione apposita del carcere, non ha realizzato l’estremo gesto in pochi attimi imprevedibili, ma ha attuato uno sciopero della fame che si è perpetrato per numerosi giorni. La donna chiedeva solamente di rivedere il proprio figlio di quattro anni, richiesta che ha continuato a ripetere fino alla sua morte. Il garante comunale per i diritti dei detenuti a Torino, Monica Cristina Gallo, ha dichiarato che dal carcere non è arrivata nessuna notizia del rifiuto di acqua e cibo da parte della detenuta e che purtroppo questo poco interesse e scarsa circolazione di notizie ha impedito un intervento più immediato che avrebbe potuto salvarle la vita.

I dati sui suicidi

Le tragiche storie delle due donne purtroppo non rappresentano casi isolati e straordinari, ma sono la drammatica normalità dell’inferno che è il carcere. Il sintomo di una società malata che fallisce ogni volta che una persona si toglie la vita. Il risultato di una crisi che va avanti ormai da troppi anni e che l’anno scorso ha portato alla mostruosa cifra di ottantacinque suicidi. Si tratta di quindici suicidi ogni diecimila persone incarcerate, una percentuale venti volte maggiore se paragonata con quella dei suicidi commessi in libertà.

Ma perché una cifra del genere ci dovrebbe far preoccupare? Perché è necessario parlare delle carceri, o meglio, di emergenza carceri?

La risposta può sembrare banale, ma forse, osservando la situazione attuale, non è scontata: uno Stato che spinge così tante persone, che dovrebbero essere sotto la sua responsabilità, al suicidio non è un sistema sano. Non è sano un sistema che, sebbene abbia come scopo principale quello di rieducare il condannato, lo porti all’annientamento, alla totale distruzione, alla morte

Come sottolinea l’Associazione Antigone, le cause di questa crisi sono numerosissime e ci dovrebbero far riflettere appieno sulla situazione carceraria italiana.

Alcune di queste problematiche sono di tipo più strutturale, quindi legate ai luoghi nei quali i detenuti vengono incarcerati. Una delle principali criticità è il sovraffollamento proprio di questi ultimi. Antigone stima che i dati di sovraffollamento reale medio sfiori il 120%.1 Ciò avviene sia per mancanze di strutture apposite, ma anche per lo scarso utilizzo di misure detentive alternative. Tornando alle strutture, invece, le altre problematiche legate ad esse che si possono osservare soni, ad esempio, gli spazi personali minimi che in moltissimi casi non vengono concessi, l’impossibilità di privacy durante la detenzione, e le problematiche di aerazione delle celle, che nei mesi più caldi dell’anno causano un gravissimo disagio (per sottolineare questa affermazione, basta osservare come l’estate sia la stagione nella quale si registra il maggior numero di suicidi dell’anno). 

Dall’altra parte troviamo anche problematiche di altro livello, come le opportunità offerte ai detenuti. Pochissimi ad esempio sono gli incontri previsti per vedere i propri parenti o anche semplicemente le chiamate concesse mensilmente. Come è facile comprendere e come si è potuto osservare per il caso di Susan John sopracitato, in condizioni del genere diventa difficoltoso anche vedere i propri figli e creare un rapporto con essi. “Non si può essere mamme 12 ore all’anno, quando va bene” dice una delle testimonianze raccolte proprio da Antigone e condivise sulla loro piattaforma YouTube2. Inoltre, tra le altre problematiche ritroviamo una scarsissima proposta di lavori per i detenuti, che viene razionalizzata al massimo rendendo vacuo uno strumento fondamentale per il reintegro nella nostra società. 
Una nota importante da sottolineare, sempre a proposito dei lavoro in carcere, riguarda i lavori proposti alle donne. Come sottolinea il primo rapporto sulle donne detenute di Antigone, la maggior parte dei lavori destinati ad esse sembra ricalcare una visione della “femminilità” di forte stampo patriarcale, impedendo così la scelta di svolgere attività più coerenti con le loro passioni e i loro interessi.3
Infine, tornando alla drammatica emergenza suicidi nelle carceri, alcuni dati su cui è possibile fare un’ultima riflessione sono quelli riguardanti il periodo che passa dall’ingresso in carcere al drammatico gesto. Osservando i dati raccolti nel 2022, l’Associazione Antigone ci racconta, che la maggior parte dei suicidi (cinquanta persone, ovvero il 60% dei totali) sono avvenuti nei primi sei mesi dall’ingresso in carcere, di cui sedici nei primi dieci giorni e dieci nelle prime ventiquattro ore dall’entrata nella struttura. Ciò ci spiega appieno quanto possa essere distruttivo l’impatto che avviene con l’ingresso nelle strutture detentive, andando ad indicare quanto sia necessario investire sull’assistenza ai detenuti, soprattutto se inseriti per la prima volta nel sistema carcerario. 

Conclusioni

La necessità di riflettere su tali tematiche, dare più possibilità di lavoro, concedere più telefonate, e più visite con i loro cari, fornire strutture più adeguate e vivibili, non significa piegarsi ai “capricci” di uomini e donne detenute, ma garantire loro la dignità umana minima. Una dignità che ogni essere umano dovrebbe vedere conservata in ogni caso, anche dopo aver commesso il più efferato dei delitti. Una dignità che dovrebbe essere protetta da patti, trattati, convenzioni internazionali e dalla nostra stessa Costituzione.
Rendere più umana la detenzione in carcere  dovrebbe anche spingere a ridurre quella distanza che c’è tra loro e noi, per tenerli in contatto con questo mondo che prima o poi dovranno affrontare. Per comprendere che spesso i confini sono più labili di quel che si pensa. Per creare un dialogo, tra il fuori e il dentro, anche solo per ricordarci che non si tratta di un altro mondo, di un altro universo, ma di una parte della nostra società che abbiamo deciso di non vedere più, di nascondere per sempre.

Alessandro Santoni

Tutte le foto del seguente articolo sono state realizzate nel Museo della Memoria Carceraria di Saluzzo (https://www.museodellamemoriacarceraria.it/)

  1. https://www.rapportoantigone.it/diciannovesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/numeri/ ↩︎
  2. https://youtu.be/sN-n3QYh7vI?si=hwDFuCu-W2pvciyg ↩︎
  3. Per approfondire come la cultura patriarcale abbia influenzato anche la detenzione femminile nel corso della storia si consiglia la lettura del testo Breve storia della detenzione femminile di Costanza Agnella contenuto in Dalla Parte di Antigone – Primo rapporto sulle donne detenute in Italia realizzato dall’Associazione Antigone e consultabile sul loro sito. (https://www.rapportoantigone.it/primo-rapporto-sulle-donne-detenute-in-italia/. ↩︎

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