“L’arte della gioia”, ovvero scegliere la felicità

L’arte della gioia è il più grande romanzo di Goliarda Sapienza: viene pubblicato postumo nel 1998, dopo essere stato ritrovato casualmente dal vedovo della scrittrice dopo la morte di quest’ultima. Prima di arrivare alla notorietà in Italia, il libro è tradotto e pubblicato in Francia, Spagna e Germania. Ci racconta la storia di Modesta, nata il 1° gennaio 1900 e con cui da subito la vita si dimostra poco clemente: unica superstite della propria famiglia, cresce sotto lo sguardo attento delle suore di un convento poco lontano da Catania. Con una lucidità e una scaltrezza fuori dal comune, inizia una scalata sociale che la porterà a diventare parte dell’ormai morente nobiltà siciliana: riesce a sposare l’ultimo erede dei Brandiforti, assicurandosi il titolo di “principessa”. Da questa posizione Modesta lotta tutta la vita contro il pregiudizio e la rigida impostazione sociale, che la vedeva solo madre e moglie: vive invece una vita libertina, cambiando partner più volte, istruendosi e leggendo autori sovversivi. La voce della protagonista attraversa il 20esimo secolo fino agli anni ’60, illustrando i solchi che i grandi eventi della storia del Novecento lasciano nelle vite della gente comune. Una storia complessa, che vale la pena leggere più volte, per cogliere sfumature sempre nuove, accompagnata da uno stile vario e mai banale: la voce della protagonista cambia con la sua età, riempiendosi di curiosità ed energia nell’adolescenza e di fermezza e saggezza nell’età matura.

Tuttavia L’arte della gioia è molto più di un romanzo storico. Per cominciare, è semi-autobiografico: nel personaggio di Modesta ritroviamo la forza, il carattere e le idee politiche dell’autrice, figlia di un avvocato socialista e di una sindacalista. Soprattutto è un romanzo umano: nella complessità degli intrecci emotivi e famigliari si percepisce una genuinità assoluta. I sentimenti dei personaggi non sono mai forzati; i tradimenti e le violenze, per quanto crudeli e insensate, sono ricoperte da un velo di pietà che fa perdonare qualsiasi cosa: all’amore, alla passione, alla rabbia e alla paura non si comanda. Il romanzo è un inno alla vita, un incoraggiamento a seguire quel che ci sussurra l’istinto, ad imparare a gestire le conseguenze più che preoccuparci dell’atto in sé. Il messaggio di fondo sembra essere quello di amare la vita senza remore, qualsiasi siano le circostanze.

Si tratta, inoltre, di un romanzo di lotta: Modesta lotta costantemente, in più sensi. Lotta in quanto donna per la propria indipendenza: è istruita e tiene i conti di casa da sola, per quanto le suggeriscano di farlo fare ad un avvocato; va a teatro senza un uomo, accompagnata solo dall’amica fraterna Beatrice; si innamora di persone diverse, sia uomini che donne, senza mai legarsi stabilmente, guidata solo dai propri sensi. Predica una libertà emotiva e sessuale proibita alle sue contemporanee, e appunto per questo è spesso additata come “stravagante” e ammirata al tempo stesso. È pienamente padrona del suo corpo e insegna questa preziosa sensibilità ai propri figli e nipoti. Poi lotta per la libertà di pensiero: sin dai primissimi capitoli capiamo che Modesta ragiona sempre di testa sua, ed è astuta e oculata nel farlo. Lo vediamo quando si lascia alle spalle l’educazione cattolica per abbracciare la nobiltà, o quando inizia a proteggere i nemici del regime durante il fascismo. Prende decisioni per il bene suo e della sua famiglia, non con egoismo, ma con una buona dose di amor proprio. Nella speranza e nella forza di Modesta il lettore si sente ringiovanire: la spinta a lottare per una situazione migliore, per quello che si crede giusto, è un richiamo allo slancio vitale della giovinezza, che nella protagonista è una costante preziosa, un dettaglio inconfondibile.

Francesca Borla

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