Viviamo in un’epoca di costante innovazione in cui siamo tenuti a mantenerci al passo con il progresso tecnologico per evitare di esserne sopraffatti e in cui siamo sottoposti a ritmi di lavoro frenetici e alienanti, oppressi da un mondo in rapida e incontrollata evoluzione.
Il senso di inquietudine che ne deriva è ciò che ventinove artisti internazionali intendono trasmettere nelle loro trentaquattro opere esposte al MAST di Bologna, dove è stata allestita una mostra intitolata “Vertigo – Video Scenarios of Rapid Changes”, visitabile tra il 10 Febbraio e il 30 Giugno 2024, la cui peculiarità risiede nella forma artistica scelta, ovvero video, cortometraggi o serie composte da brevi episodi. Secondo il curatore Urs Stahel, le immagini in movimento renderebbero al meglio l’idea della trasformazione e della vertigine, che, come afferma il titolo, il mutare repentino della società provoca in coloro i quali vi assistono e ne risultano trascinati.
Le video-installazioni, accessibili tramite QR code, sono raggruppate in sei sezioni tematiche, accompagnate da intermezzi che spiegano o commentano i contenuti delle opere multimediali.
Nella prima sezione, dedicata a lavoro e processi produttivi, fra i vari temi, è discusso l’impatto dell’AI e dell’automazione sull’attività dei lavoratori e sono rappresentate le condizioni in cui versano gli operai impiegati nelle fabbriche del passato, che, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, si dimostrano analoghe a quelle odierne.
Tra le proposte della seconda sezione, “Commercio”, si distingue il film “Asia One” (2018) dell’artista cinese Cao Fei, che narra l’instaurarsi di un legame speciale tra due operai che lavorano in un centro di smistamento completamente automatizzato, nel quale si percepisce un’atmosfera surreale di iper-efficienza e produttività incessante, in cui umano e “non umano” si sovrappongono fino a sfumare l’uno nell’altro.

Si tratta di una rilettura in chiave contemporanea del film “Tempi moderni” (1936) realizzato da Charlie Chaplin, attore e regista britannico che rappresentò una delle personalità più note e creative del cinema muto. Charlot, “il vagabondo” protagonista di molte delle sue sceneggiature e da lui interpretato, divenne emblema dell’alienazione umana, nello specifico delle classi meno abbienti, nell’era del progresso economico e industriale.
In “Tempi moderni” Charlot è un operaio che lavora presso una catena di montaggio, compie gesti ripetitivi e svolge la propria attività secondo ritmi disumani che finiscono per minare la sua salute mentale, provocandogli un esaurimento nervoso. Il regista delinea uno scenario che riflette il clima politico e sociale del Novecento, a cui si oppone, sostenendo l’importanza del riconoscimento della dignità umana, ormai annullata dal dominio delle macchine e scagliandosi contro l’asservimento dell’individuo ai dogmi della produttività e del profitto.
Sia Fei che Chaplin, seppur in epoche differenti, mettono in scena le problematiche legate alle innovazioni tecnologiche che hanno rivoluzionato e continuano a rivoluzionare il lavoro, incrementandone i ritmi e lasciando sempre meno spazio all’inventiva umana, che rischia di inaridirsi fino a determinare l’impossibilità di distinguere tra uomo e macchina.
La terza sezione, “Nuovi comportamenti”, ritrae drammatiche scene di vita quotidiana che esemplificano la condizione dell’uomo contemporaneo: freneticamente bramoso di potere, estraniato dalla realtà e asservito ai mezzi di informazione, da cui è continuamente influenzato. In “The Rise” (2017) di Nina Fischer e Maroan el Sani, osserviamo un giovane manager che si affretta a salire le scale di un enorme edificio, metafora della smania di ascesa sociale; giunto in cima, scopre che la posizione più alta è già occupata. In “Take the Long Way Home” (2016) di Sven Johne, ambientato in una strada notturna, il protagonista è alla guida, non dorme da una settimana per via del carico di lavoro e nel viaggio di ritorno verso casa è assalito da innumerevoli e tragiche notizie di cronaca trasmesse alla radio.
La quarta sezione è dedicata alla comunicazione. Uno dei cortometraggi più significativi si intitola “If you didn’t choose A, you will probably choose B” (2022) di Ariane Loze, in cui è rappresentata una donna costantemente tracciata e analizzata da algoritmi viventi che la perseguitano per le strade di una Parigi deserta e fantascientifica.
La quinta sezione, “Ambiente naturale”, analizza e mostra gli effetti dello sfruttamento della natura da parte dell’uomo, che causa il mutare irreversibile della sua fisionomia, ormai distrutta. “Broken Spectre” (2022) di Richard Mosse è un’opera immersiva in cui è raffigurata la foresta amazzonica devastata dalla deforestazione e dagli incendi. Le immagini del disastro ambientale, realizzate tramite telecamere satellitari, sono accompagnate da una colonna sonora composta da Ben Frost, che ha registrato, grazie all’impiego di microfoni ad ultrasuoni, le vibrazioni prodotte dagli insetti annidati nelle fessure degli alberi abbattuti.

Nella sesta e ultima sezione, “Contratto sociale”, “The only reason…” (2019) di Julika Rudelius evidenzia il divario economico presente nelle grandi metropoli. Il cortometraggio è stato registrato nel distretto di Skid Row a Los Angeles, dove è sorta per le strade del quartiere una tendopoli di tossicodipendenti e persone senza fissa dimora.
Infine, “All Bleeding Stops Eventually” (2019) di Will Benedict, a chiusura della mostra, è un monito rivolto agli uomini: alcune specie a rischio, il sole e la luna prendono voce e ci invitano a riesaminare il rapporto che abbiamo instaurato con la natura e a riflettere sulle nostre responsabilità, in quanto abbiamo intrapreso un tragico percorso orientato, in ultima analisi, in direzione dell’estinzione del genere umano stesso.
Gaia Romano

