Whitewashing e blackwashing, tra discriminazioni e inclusività

Negli ultimi anni, grazie ai social network, si sono fatte strada parecchie critiche e accuse in merito a una delle pratiche più antiche di Hollywood: stiamo parlando del whitewashing. Il termine significa letteralmente “imbiancatura” e sta a indicare l’utilizzo di un autore caucasico per l’interpretazione di un personaggio originariamente di un’altra etnia, al fine di rendere il prodotto cinematografico più appetibile al pubblico. Sebbene questa pratica sia nata in un’epoca in cui le questioni razziali non erano contemplate e la superiorità dell’uomo bianco era indiscussa, persiste ancora oggi, e la questione è oggetto di polemiche a causa di alcune scelte poco inclusive da parte di alcune case cinematografiche. Basti pensare alla scelta di assumere Benedict Cumberbatch per interpretare Khan in Stark Trek – into the darkness, personaggio che dovrebbe essere indiano, oppure a Scarlet Johansson in Ghost in the Shell.

Riguardo a questa pratica si sono scatenate opinioni contrastanti: è vero che bisognerebbe rispettare l’etnia originaria di un personaggio, soprattutto in una realtà dove la diversità ancora oggi ottiene poca rappresentazione, ma è anche vero che molti registi preferiscono puntare su attori e attrici già noti per poter garantire un numero maggiori di incassi alla loro pellicola.

Ma perché possiamo senza dubbio affermare che il whitewashing è discriminatorio? Proprio perché la scelta di non rappresentare una realtà multietnica, o di farlo solo relegandola a personaggi secondari e stereotipati (basti pensare al signor Yunioshi in Colazione da Tiffany) non fa che alimentare pregiudizi e discriminazioni nei confronti delle altre culture, in favore del falso mito della centralità dell’uomo caucasico. Questo ha portato, di conseguenza, alla notevole difficoltà ad ambire a ruoli centrali all’interno delle pellicole di Hollywood per attori di etnie diverse.

Molte cose oggi sono cambiate, a partire dalla quantità di case cinematografiche e dalla nascita e dallo sviluppo di servizi di streaming come Netflix, Amazon Prime e Disney+. Questo ha senza dubbio favorito l’inclusività all’interno del mondo del cinema, dove sempre più attori non caucasici si stanno facendo strada e molti spettatori possono godere di una piena e autentica rappresentazione delle altre culture.

Negli ultimi anni pare si stia operando il fenomeno opposto: molte etichette famose, tra cui Disney, stanno attuando quello che molti definiscono “blackwashing”, ovvero l’assegnazione ad attori di origine africana o di altre etnie di interpretazioni di personaggi storicamente occidentali. Su questo argomento attualmente scottante sono molte le polemiche, prime tra tutte quelle che accusano la società e il cinema di essere troppo “politically correct”, portando a una sorta di razzismo inverso. Tuttavia, è opportuno riconoscere le differenze tra una rappresentazione prettamente bianca e una multietnica.

L’idea di base è che l’etnia dell’attore non debba intaccare la caratterizzazione specifica del personaggio che sta interpretando: se, come si vocifera, il nuovo James Bond fosse interpretato da Idris Elba, il noto 007 rimarrebbe comunque il raffinato e affascinante agente segreto inglese, a prescindere dal colore della pelle. Anzi, si introdurrebbe la consapevolezza del fatto che un generico uomo inglese non sia per forza un uomo bianco, perché il mondo è molto più vario di quanto il cinema ci mostri.

La scelta di dare maggiore rilievo alle altre etnie è stata attuata, senza dubbio, per nobili motivi di inclusività, volendo anche riscattare il cinema da decenni di whitewashing sfrenato. Il problema si manifesta nel momento in cui questa inclusività va contro le logiche della storia: un esempio potrebbe essere la scelta di Netflix di assumere un attore nero per interpretare il ruolo di Achille, oppure la presenza di re e regine di diverse etnie nella serie Bridgerton.

Quindi, sebbene una Cenerentola cubana non faccia la differenza, rendere personaggi storici inverosimili non può che fomentare polveroni e critiche, rendendo la questione dell’inclusività oggetto di insulti.

Noi crediamo fortemente nell’uguaglianza, ma il timore di molti è che l’eccesso di blackwashing vada a fomentare ulteriore razzismo, portando a una volontà di “ritorno alla tradizione”.

Monica Poletti

Immagine di copertina: Google

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