Durante il mese di agosto, un giovane profugo si è accovacciato sul ponte davanti a Castel Sant’Angelo a Roma, in balia degli sguardi dei passanti, dei gesti a lui rivolti, degli scatti fotografici. La particolarità di tale profugo è che si tratta di un uomo marmoreo scolpito ad arte da Jago, giovane scultore che sta conquistando sempre di più la scena artistica italiana.
Scoperto da Maria Teresa Benedetti e Vittorio Sgarbi a soli 24 anni, Jago, oggi trentacinquenne, vanta un curriculum di tutto rispetto: ha partecipato alla Biennale di Venezia, tenuto delle lezioni presso la New York Academy of Art e ricevuto, nel 2012, la Medaglia del Pontificato per la realizzazione di una scultura dedicata a Papa Benedetto XVI.
Punto di forza della fama dello scultore, oltre ad essere un portento, è sicuramente lo stile comunicativo. L’arte di Jago ha una voce e una eco: la voce è sicuramente l’impatto espressivo delle opere e dei loro messaggi, l’eco la risonanza che esse hanno sui social, sfruttati sapientemente in una società che ormai non può farne a meno. Sul profilo Instagram dello scultore possiamo assistere alla realizzazione delle sue opere, caratterizzate da linee violente e rigature che lasciano un senso di rovina, di consumo del marmo stesso. Lo si potrebbe definire un artista postmoderno: Jago è solito citare opere del passato e rivisitarle in uno stile personale e attuale, basti pensare a La Pietà, una toccante riscrittura a generi invertiti della celeberrima scultura michelangiolesca, o al Figlio Velato ispirato al Cristo Velato di Sanmartino.

Non solo, le sculture di Jago hanno un ché di politico: In flagella paratus sum, l’opera citata nell’incipit dell’articolo, porta con sé un significato profondo che la trasforma in un esperimento sociale. Prima dell’esposizione su Ponte Sant’Angelo, il “profugo di marmo” ha inizialmente viaggiato in mare con migranti della Libia, successivamente è stato collocato al centro dello Stadio Olimpico con lo scopo di essere avvolto dalla platea; infine è stato sdraiato sul ponte che congiunge il Castello alla Basilica di San Pietro, in pasto ai passanti. Ha compiuto metaforicamente il viaggio di un vero profugo: ora sta allo spettatore decidere come comportarsi col suo corpo accovacciato per terra. Si tratta di un esperimento “alla Jago” (l’artista aveva già fatto un’operazione simile a Napoli con Look Down): l’obiettivo è testare le reazioni di un pubblico verace, molto più vasto e ben diverso da quello solito delle mostre. Un giovane senza dimora e senza futuro, che dichiara esplicitamente di “essere pronto al flagello”. Il flagello dei passanti che gli hanno spezzato una mano, ma anche il flagello di chi è indisposto all’accoglienza, il flagello di una vita amara a cui non resta che arrendersi.
Il futuro del profugo di marmo sarà quello di essere venduto all’asta per donare il ricavato all’associazione SOS Mediterranee, che quotidianamente si occupa di soccorrere coloro che fuggono dal proprio flagello, alla ricerca di un futuro diverso. Anche in questo caso l’arte esercita quella che potremmo definire la più nobile delle sue funzioni: spingere lo spettatore a riflettere, a filosofare e andare oltre il semplice gusto estetico, puntando alla solidarietà.
Giulia Calvi
Crediti immagine di copertina: HuffPost Italia
