“Non sono esseri umani, sono i proiettili di Putin”.
Green Border, l’ultimo film della regista polacca Agnieszka Holland, è stato presentato in diversi festival cinematografici internazionali, vincendo a Venezia il premio speciale della giuria e a Rotterdam quello del pubblico. Anche in Polonia il film è candidato a numerose categorie ai Polish Film Awards 2024, l’equivalente dei nostri Premi David di Donatello, e si è rivelato un successo al botteghino, portando in sala oltre settecentomila persone.
Il presidente polacco Andrzej Duda e il governo di estrema destra hanno cercato di boicottarlo pesantemente, consapevoli della realtà brutale dei confini del loro Paese. L’ex ministro della giustizia Zbigniew Ziobro ha addirittura paragonato il film alla “propaganda nazista” per la sua presunta rappresentazione negativa della polizia e delle guardie di frontiera polacche. La regista accusa inoltre il governo di aver esercitato forti pressioni sulla commissione degli Oscar affinché scegliesse il film The Peasants al posto del suo (molto più compromettente), che avrebbe potuto mostrare a un pubblico più vasto la violenta politica di Varsavia nei confronti dei migranti.
Il film è una pesante critica rivolta al governo polacco e a quello bielorusso e ci mostra tutti i protagonisti che si scontrano con la realtà del confine. La storia è suddivisa in tre capitoli (più un epilogo finale), ognuno dei quali è riservato a tre figure diverse: una famiglia di profughi siriani che deve entrare in Europa per andare in Svezia, dove conoscono un parente che vive lì, un soldato polacco che pattuglia il confine e un gruppo di attivisti. Il bianco e nero dà immediatamente la sensazione di essere tornati nel periodo più drammatico della storia recente europea, ma la regista specifica più volte il periodo in cui si svolge il film: vediamo le persone indossare le mascherine chirurgiche, uno dei personaggi ha perso il marito per il Covid e l’epilogo ci fa capire che da poco sia scoppiata la guerra in Ucraina.

I migranti che cercano di attraversare il confine per andare in Polonia (e quindi in Europa) vengono quasi sempre scoperti dai militari, che prontamente li scaraventano di nuovo in Bielorussia. È qui che arriva l’ennesima umiliazione, fisica e morale, ai danni di intere famiglie; una volta ritornati in Bielorussia, i migranti sono costretti a sostare nel bosco per settimane, in attesa che la loro richiesta di asilo venga accettata. L’esercito bielorusso non manca di cogliere l’occasione per liberarsi di loro, aprendo un varco nel filo spinato e rimandandoli in Polonia. L’unica speranza è rappresentata dai gruppi di attivisti che cercano di fornire aiuto ai rifugiati, offrendo cibo, vestiti e supporto legale, rischiando il carcere e sfidando quotidianamente le autorità polacche. L’altra forma di speranza è una semplice cittadina che acquisisce consapevolezza a causa di un episodio drammatico che vive in prima persona. Da quel momento parteciperà attivamente per aiutare gli attivisti, trasformando addirittura la propria casa nel quartier generale dell’associazione.
Possiamo parlare di umanità riguadagnata (almeno in parte) nel caso del soldato polacco, il quale lentamente si rende conto che quello che vede e fa non corrisponde solo a ordini necessari per servire la nazione, ma è di una violenza inaudita. La brutalità con cui spostano i corpi dei migranti ricorda i metodi nazisti nei campi di concentramento. Tutto ciò viene legittimato dalla continua deumanizzazione delle persone che hanno davanti. Non si devono preoccupare di usare la violenza, perché sono solo le armi che la Russia sfrutta per attaccare la loro patria e hanno il dovere di proteggere i loro concittadini. Questa retorica implode quando anche chi credeva alle parole dei suoi superiori non riesce più a sopportare la brutalità gratuita e insensata che deve infliggere a persone inermi. Finalmente il soldato polacco realizza che davanti a sé si trovano degli esseri umani come lui, una moglie incinta come la sua o un bambino simile a quello che di lì a poco avrebbe cresciuto come padre.

Se però la speranza viene dalle singole persone che cercano di migliorare la situazione al confine, è innegabile il fallimento del sistema di (non) accoglienza dell’Unione Europea. Ce lo fa capire immediatamente l’epilogo del film, nel quale 4 milioni di Ucraini sono accolti a braccia aperte in tutta l’Europa, dopo aver attraversato la frontiera in poche settimane, in seguito allo scoppio della guerra. L’UE ha garantito ai profughi la protezione temporanea, con cui possono accedere legalmente al mercato del lavoro, oltre ad avere la protezione sociale, l’assistenza medica e i diritti di soggiorno. È inequivocabile che il sistema dei confini europei sia strettamente controllato in base a specifici motivi politici, e non umanitari. A febbraio del 2022 l’Europa ha mostrato di potersi attivare efficacemente per accogliere un numero considerevole di persone nei propri Paesi in pochissimo tempo, smentendo ogni narrazione falsa sull’incapacità di poter risolvere le crisi dovute ai flussi migratori.
Green Border è un’opera fondamentale, necessaria per testimoniare questi tempi bui e cercare di scuotere l’opinione pubblica su temi ora più attuali che mai, con la speranza che porti a una maggiore consapevolezza dell’attuale gestione delle migrazioni e a una conseguente presa di posizione.
Fabrizio Mogni
