Che una trattativa tra pezzi dello Stato Italiano e Cosa Nostra ci sia stata si sapeva già grazie ad altre sentenze definitive, ma la sentenza pronunciata dalla Corte di Assise di Palermo in merito al processo su di essa è fondamentale, anche se si tratta di una sentenza di primo grado per altri motivi.
Il reato contestato a tutti gli imputati, escluso l’ex Ministro degli Interni Nicola Mancino accusato di falsa testimonianza e poi assolto perché il fatto non sussiste, è violenza o minaccia a corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato, ove in questo caso i corpi sono tre: i governi Amato e Ciampi per il 1992 e il 1993, e il primo governo Berlusconi del 1994. Sembra un controsenso, ma non lo è.
I giudici hanno ritenuto provata la tesi della Procura: a partire dal gennaio 1992, quando la Cassazione confermò in maggioranza le pene inflitte ai boss nel Maxiprocesso, Cosa Nostra, guidata da Totò Riina, mise in atto una strategia molto chiara: eliminare chi aveva tradito le promesse. Si iniziò con l’omicidio di Salvo Lima a Mondello nel marzo del ’92, quando poi i vertici del ROS, Reparto Operativo Speciale dei Carabinieri, nelle persone di Mori, De Donno e Subranni, avviarono e portarono avanti un dialogo con Cosa Nostra, usando come intermediario don Vito Ciancimino per parlare con Riina prima e con Provenzano poi. Come scriveva Falcone su La Stampa, prima della strage di Capaci, la minaccia che i mafiosi rivolgevano allo Stato era questa:
Il rapporto si è invertito: ora è la mafia che vuole comandare. E se la politica non obbedisce, la mafia si apre la strada da sola.
Dal 1992 al 1993 i vertici del ROS si sono fatti intermediari, portatori della minaccia mafiosa verso lo Stato Italiano, presa successivamente in carico da Marcello Dell’Ultri, fondatore di Forza Italia – attualmente in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa – nella cui sentenza i giudici hanno evidenziato il carattere di trait d’union fondamentale ed insostituibile tra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi.
Marcello Dell’Utri, appena condannato a dodici anni come il suo amico Antonino Cinà, boss e medico fedelissimo a Totò Riina, è stato la cinghia di trasmissione tra la mafia e Berlusconi, sia l’imprenditore prima, che il politico e Presidente del Consiglio poi.
Antonino Di Matteo ha dichiarato:
Che la trattativa ci fosse stata non occorreva che lo dicesse questa sentenza. Ciò che emerge oggi e che viene sancito è che pezzi dello Stato si sono fatti tramite delle richieste della mafia. Mentre saltavano in aria giudici, secondo la sentenza qualcuno nello Stato aiutava Cosa nostra a cercare di ottenere i risultati che Riina e gli altri boss chiedevano. È una sentenza storica.
Una sentenza storica che afferma non solo l’esistenza della Trattativa, ma anche la correttezza della Procura nell’individuarne i protagonisti.
Questa sentenza, ancora di primo grado e quindi non definitiva, apre la strada alla verità su un momento storico che ha certamente cambiato e sconvolto la storia contemporanea e recentissima del nostro paese.
Mentre in Italia giudici, poliziotti, magistrati, giornalisti, cittadini per bene morivano, saltavano in aria, perdevano familiari e amici in questa guerra tra noi e loro, pezzi del nostro Stato si sono adoperati e alacremente spesi per trattare con gli altri, con quelli che le bombe le mettevano. L’Italia merita di sapere con certezza chi siano i traditori che trattarono, merita di sapere tutta la verità.
Cecilia Marangon